RUMOR(S)CENA – BARI – È un momento particolarmente felice per Gianni Forte, drammaturgo di fama internazionale, traduttore, regista e attore, fondatore nel 2006, con Stefano Ricci, del della Compagnia artistica Ricci/Forte, e già co-direttore artistico 2021/2024 del settore Teatro della Biennale di Venezia. Da poco è stato insignito della carica di direttore artistico dei Teatri di Bari Teatro Kismet OperA in condirezione con Teresa Ludovico. Lo abbiamo intervistato per chiedergli quali saranno i temi al centro della programmazione teatrale e quali sono le nuove produzioni per la stagione 2025/2026.

L’impegno della programmazione per Teatri di Bari unico TRIC in Puglia come direttore artistico internazionale e l’impegno nella scrittura e nella creazione teatrale per Teatri e Festival internazionali. Come conciliare tutte queste attività?
Conciliare mondi, apparentemente distanti, è come sostenere un respiro bifronte: uno che affonda nelle viscere della creazione, l’altro che si apre all’ascolto collettivo di una comunità teatrale. La co-direzione artistica dei Teatri di Bari insieme a Teresa Ludovico, complice e anima affine, è un’officina in fermento continuo, un crocevia in cui la pluralità non è un ostacolo ma fonte di nutrimento, dove l’identità si costruisce per stratificazione, non per sottrazione. Una sfida stimolante per generare un’offerta culturale radicata nel territorio e, al contempo, capace di dialogare con le sperimentazioni internazionali, mettendo in risonanza il pubblico pugliese con le traiettorie più audaci della scena contemporanea.

Parallelamente, la scrittura e la scena restano il mio centro vitale in cui decifro il presente, reinvento linguaggi, mi metto in gioco. Queste due dimensioni non sono mai scollegate, si alimentano a vicenda. Sono lo stesso fiume che scorre con diverse velocità, che si increspa, che si placa, ma che cerca sempre un senso e una direzione. Il gesto artistico dà linfa allo sguardo programmatico, e viceversa: l’uno suggerisce all’altro dove trovare la fessura da cui possa filtrare una luce nuova. L’esperienza creativa mi permette di comprendere a fondo le esigenze degli artisti e dei processi produttivi, mentre il ruolo curatoriale – grazie a una struttura solida, a un’equipe coesa e un ascolto attento del pubblico, degli artisti, dei territori – mi permette di immaginare un ecosistema teatrale fertile, inclusivo. Ed è proprio lì che il teatro, a mio avviso, si compie nella sua interezza.
C’è stata una traccia tematica che ha seguito per dare unità alle nuove produzioni o coproduzioni e organicità alla programmazione di Bari? In un’intervista lei parla della responsabilità etica di dare nuove possibilità a giovani.
Teresa ed io non abbiamo inseguito un filo conduttore unico, una linea tematica in senso stretto, quanto piuttosto una direzione di pensiero, un orizzonte condiviso, una traiettoria invisibile che unisce visione e desiderio, una tensione verso ciò che riteniamo imprescindibile: creare un teatro che sappia leggere l’Oggi con occhi spalancati e restituirlo in forme inedite, essenziali. Mantenendo costantemente aperto il margine dell’imprevisto, una sorta di bussola etica ed estetica che guiderà l’intero impianto curatoriale. Questo orientamento, come un’eco, fluirà anche nelle scelte produttive, nelle coproduzioni, negli artisti coinvolti: è il segno di un nuovo corso per Teatri di Bari, che presenteremo ufficialmente con la stagione 2025/2026, in conferenza stampa. E la responsabilità etica di cui parlavo – soprattutto verso le nuove generazioni – non sarà uno slogan, ma una pratica concreta. Sentiamo fortemente la responsabilità di sostenere i talenti emergenti, intercettare le impellenze, aprire varchi, spalancare spazi reali, di creare habitat in cui i giovani possano rischiare, sbagliare, reinventare il linguaggio, senza dover recintare il perimetro del possibile. Il teatro, dopotutto, resta uno degli ultimi luoghi dove il futuro può ancora accadere live, in diretta. E noi abbiamo il dovere, e il privilegio, di preparare quel terreno.

Parliamo del suo testo “Schegge di memoria disordinata a inchiostro policromo” con la regia di Fausto Cabra: i miei studenti del corso di laurea in Storia del Teatro che sono andati a vederlo a Milano al Franco Parent,i in uno spazio molto piccolo, lo hanno definito uno degli spettacoli più belli che avessero mai visto. Intanto la storia vera da lei scelta ha colpito moltissimo e sembra inserirsi in quel filone del legal drama che va molto anche nelle serie Tv e al cinema. Ci può raccontare come è nata l’idea della storia e come ha lavorato con il regista per questo allestimento così coinvolgente per la presenza di vari media e per la trama che continuamente smonta tutte le certezze?
La scintilla iniziale non è partita da me. A propormi la storia è stato Fausto Cabra, con cui si è instaurato un dialogo prolifico. La proposta è stata poi condivisa con generosità e lungimiranza da Andrée Ruth Shammah, direttrice artistica del Teatro Franco Parenti, produttrice capace di intuire fin da subito la potenza scenica del progetto. Ho scelto di non vedere né il film né la serie tv ispirati alla vicenda reale di Billy Milligan per preservare uno sguardo il più possibile libero, non condizionato. Non volevo che diventasse una gabbia narrativa vincolante. Mi sono invece immerso in documenti, testimonianze, casi e archivi clinici, non solo legati a Milligan ma a molteplici storie di “disturbo dissociativo dell’identità”. La mia intenzione non era fare un ritratto fedele a una singola esistenza, ma comporre una partitura emotiva – quella zona friabile dove ogni certezza si scioglie – che potesse parlare a chiunque. La mia drammaturgia si muove come l’inconscio: circolare, ellittica, fatta di ritorni, assenze, derive, tipiche di un paesaggio mentale. Un teatro della psiche, un luogo dove l’io si frantuma e si moltiplica, dove ogni voce/presenza è un’intermittenza, una memoria che cerca invano di ricomporsi.

Fausto ha accolto la complessità del testo, creando uno spazio scenico liquido, dove il confine tra realtà e immaginazione si dissolve, si fa poroso. I media – suono, luce, proiezioni – non sono elementi decorativi, ma diventano prolungamento percettivo del caos interiore, parte integrante di quel disordine emotivo che dimora in ciascuno di noi. E gli attori – Raffaele Esposito, Anna Gualdo, Elena Gigliotti – hanno dato corpo a queste “schegge” con una potenza toccante, trasformando le parole in materia viva. Recentemente la versione rumena di “Schegge di memoria disordinata a inchiostro policromo” è stata realizzata a Bucarest al Teatrul National Radiofonic, con l’adattamento di Oana Cristea Grigorescu, la traduzione di Eva Simon, e la regia del pluripremiato Mihnea Chelaru.

Autore, traduttore, regista, attore, direttore artistico, formatore, intellettuale e figura di riferimento in Italia e all’estero per il teatro contemporaneo. In quale di questi mestieri o se vogliamo, risvolti del suo lavoro artistico si ritrova di più?
In realtà non riesco a collocarmi dentro un ruolo, né sotto un’etichetta. Mi sento attraversato da diverse posture dell’anima che il tempo, le necessità e gli incontri hanno disegnato su di me. Le dimensioni che hai citato non sono compartimenti stagni, ma vene dello stesso corpo creativo. Ognuna mi ha insegnato un differente modo di ascoltare il mondo, di raccontarlo. Forse, più che “ritrovarmi” in una sola funzione, mi sento a casa nel punto in cui queste si incontrano, si confondono, si contaminano. Scrivere resta il nucleo incandescente, la prima fenditura in cui si insinuano le visioni, le ossessioni. Ma amo anche immergermi nella materia pulsante della scena, dove la parola si spezza, diventa gesto, ritmo, silenzio. Tradurre è per me un atto poetico, di intimità, è come accarezzare la lingua dell’altro fino a sentirla pulsare nella propria. E formare significa condividere lo stupore e il dubbio, senza mai smettere di mettersi in discussione e di restare disponibili alla trasformazione. Ora sto ri/attraversando anche un’altra soglia, quella della creazione filmica: sto scrivendo insieme ai MASBEDO un nuovo progetto. È un altro lessico ancora, un’altra pelle. È ciò che inseguo da sempre: stare dove la forma ancora non è definita, dove il rischio genera linguaggio, e il linguaggio si fa “altro”.

I suoi viaggi in tutto il mondo, toccando anche Paesi in situazioni conflittuali, le sue nomine prestigiose in Festival internazionali come il GIFT di Tbilisi e la Biennale a Venezia, le sue collaborazioni con compagnie straniere come hanno influito sulla sua scrittura?
I viaggi, per me, non sono mai stati soltanto le geografie percorse ma i corpi incontrati, le lingue udite, i silenzi condivisi, gli spostamenti interiori, quelli che ti sradicano e ti scorticano, che hanno affinato in me uno sguardo più vulnerabile, lasciando una cicatrice di vertigine nella mia scrittura. L’invito a far parte del Consiglio d’Amministrazione dell’esemplare GIFT Festival di Tbilisi, la co-direzione della Biennale Teatro di Venezia o l’incontro con compagnie straniere ha allargato i confini del mio lavoro, rendendoli permeabili. In questi attraversamenti ho imparato che la parola non basta. Che il teatro è un modo per restare, nonostante tutto, in relazione col mondo. Che il teatro non è mai un gesto solitario, ma un atto di traduzione continua di culture, di visioni, di ferite e deve farsi voce che accoglie l’incomprensibile.
La scrittura, da allora, è diventata per me meno lineare, più stratificata, si è fatta polifonica, come un coro dissonante eppure armonico. Scrivere è diventato sempre più un atto di ascolto per tenere aperto il dialogo con l’altrove – non come esotismo, ma come necessità di ricordarci che l’umano è sempre plurale. Un teatro che non spieghi il mondo, ma che abbia il coraggio di stare nel suo disordine. E oggi, vivendo in Francia, anche il francese ha cominciato ad abitare i miei testi. Una lingua che mi guarda da fuori e da dentro, che mi costringe a rallentare, ad accogliere il silenzio tra le parole. Scrivere in un’altra lingua è come camminare a piedi nudi su una terra non tua: senti tutto più forte, ogni parola è un rischio, ogni frase una frontiera. Ma è proprio in quel rischio che la scrittura si fa più indispensabile.

Può parlarci di René Crevel e della tua scelta di tradurre questo “surrealista inquieto” per l’Italia? Goffredo Fofi aveva scritto: “Rileggere Crevel aiuta a capire molte cose, soprattutto le contraddizioni, sempre presenti, tra politica e poesia”.
René Crevel è una lama nel buio. Un autore che non si attraversa impunemente: ti lacera, ti lascia marchi invisibili, ti costringe a respirare un’aria più rarefatta. Ogni frase è un affondo nella carne del pensiero, un luogo dove la vulnerabilità individuale si fa detonatore collettivo. In questo, è intensamente politico: espone, con disperata lucidità, la bellezza e l’impossibilità dell’essere al mondo. Ed è proprio per quella frizione di cui parla Goffredo Fofi, per quello spazio fragile e infiammato tra l’impegno e il delirio, tra il sogno e la lotta, che ho sentito il bisogno di tradurlo. “La morte difficile” (pubblicato da VENTANAS edizioni) non si lascia archiviare nel tempo, ha quasi cent’anni, eppure pulsa come fosse stato scritto domani, con una lingua che arde e sfugge, che s’innalza e precipita. Tradurre questo testo è stato come camminare in una casa in fiamme senza voler cercare vie di fuga. Non ho voluto domare l’incandescenza della voce di Crevel, ma conservarne le dissonanze, il battito incostante, le contraddizioni, i vuoti che vibrano quanto le sue parole.

Quali considera ad oggi, dopo così tanti anni sotto i riflettori dei più grandi Teatri internazionali, i risultati più significativi del suo percorso, non solo per il successo di pubblico e di critica? E quali sono i prossimi progetti in agenda?
I risultati più significativi, se devo essere onesto, non coincidono con le tappe più visibili, i riconoscimenti ufficiali, le luci più forti, ma con le zone d’ombra dove qualcosa, inaspettatamente, accade, ovvero quegli smottamenti interiori che ogni creazione ha provocato, quei momenti segreti in cui qualcosa si è mosso davvero, dentro di me, o tra me e chi guardava. Gli applausi si dimenticano in fretta. Restano gli sguardi che tremano dopo uno spettacolo, le parole sussurrate da chi si è sentito toccato, riconosciuto, scosso nelle proprie certezze. Una possibilità di verità condivisa, anche breve, anche imperfetta. Ogni progetto che affronto è un modo per perdere l’equilibrio, per tendere verso una forma in cui l’estetica non tradisca l’etica. È questo ciò che più salvaguardo: seguire un’urgenza, non una traiettoria. Lungo il percorso ho avuto il privilegio di attraversare grandi palcoscenici, di lavorare con artisti straordinari, di portare le mie parole in lingue e luoghi lontani. Ma ciò che sento più profondamente è di non aver mai smesso di esplorare, di lasciarmi cambiare da ogni incontro, da ogni creazione.
Tra i progetti in cammino ce n’è uno che nasce da uno scintillio recente: dopo aver visto a teatro, a Parigi, l’attrice iraniana Mina Kavani, di potenza rara, e dopo un dialogo intenso, viscerale, abbiamo deciso di iniziare un’avventura artistica insieme. Sto scrivendo per lei “Je suis le cri”, una Medea contemporanea, una donna sospesa tra esilio e insurrezione, tra memoria e disobbedienza, tra maternità e vendetta come ultima incarnazione dell’amore. Sarà una voce che brucia, che cammina sul confine tra la lingua perduta e il grido. Un canto di resistenza. Un corpo che porta dentro tutte le donne spezzate dalla storia e che tuttavia, indomite, scelgono di non arretrare.
Ci parli del suo bellissimo progetto in Francia di teatro e inclusività Portraits en Paysage? Lo porterà anche in Italia?
Portraits en Paysage è un progetto fiore all’occhiello, nato qualche anno fa in Francia, nelle banlieue, in collaborazione con la compagnia bretone À Corps Rompus, in dialogo con le voci che abitano i territori, spesso invisibili, di chi ha oltrepassato barriere – spaziali, emotive, linguistiche – per riscrivere la propria esistenza. È un’installazione audiovisiva, un percorso tra paesaggi esteriori e geografie interiori, un tessuto di volti/parole di donne e di uomini che non raccontano solo storie personali, ma tracciano un atlante collettivo: quello di chi, superate le frontiere, ha lasciato una casa e ne ha cercata un’altra per ricostruire un senso di appartenenza, nuove radici e possibilità. Ho portato questo progetto all’Istituto Italiano di Cultura di Atene, e prima ancora alla Medina di Tunisi e all’IIC della capitale tunisina, luoghi in cui le testimonianze si fanno canto corale, sospeso tra lingue diverse, tra ricordi che si sfiorano, si riconoscono, si armonizzano, facendo nascere un racconto comune, che supera il tempo e i confini.
Ora, con Teresa e i Teatri di Bari, il mio desiderio è portare Portraits en Paysage nella mia terra, la Puglia, perché anche lì ci sono voci da custodire, storie da raccogliere, identità da far risuonare. Vorrei che quelle parole venute da lontano trovassero rifugio tra gli ulivi e il mare, che i volti impressi nella luce di altre sponde si specchiassero nei nostri. Perché ogni volto racconta un frammento del nostro stesso viaggio.