Il pretesto per parlare

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RUMOR(S)CENA – CRITICA E TEATRO – Cosa accomuna uno spettacolo teatrale a un critico? Avere qualcosa da dire: il primo tramite una performance, per esempio; il secondo dalla visione di questa, dopo un’analisi, iniziare instaurare una sorta di dialogo, un processo di crescita per entrambi che porti a una dimensione “altra”, una maggiore comprensione di un immaginifico proposto in una realtà parallela. Laddove viene a mancare lo spettacolo e l’ azione, è bene interrogare sul vissuto e sul presente delle compagnie, degli attori sempre, però, avendo cognizione di causa che chi realmente deve parlare è l’intervistato e non il critico, a meno che non scatti poi una riflessione su una panoramica, una istantanea di un periodo particolare. In fondo, chi è il critico? È innanzitutto uno spettatore anche lui, e quindi un individuo, una sola testa. Si potrebbe citare allora un’affermazione ancora più radicale di quella di Sarcey, fatta nel secolo precedente da un autore drammatico italiano, Carlo Gozzi, noto per le sue favole teatrali e per la sua rivalità con Carlo Goldoni. Afferma Gozzi: «il critico teatrale deve tenere per fermo che tanti capi adunati in un luogo solo formano un cervellone superlativo, al cospetto del quale ogni altro cervello particolare è un nonnulla».

Quindi il pubblico sarebbe addirittura questo “cervellone superlativo”, che essendo formato da più teste non può che avere ragione. Fortunatamente il pensiero vede una continua evoluzione e progresso (o regresso) in base alla situazione storica: anche ogni critico ha comunque un punto di vista soggettivo, perché il giudizio estetico è sempre tale. E a questo bisogna rassegnarsi. Della possibile esistenza di valori oggettivi grazie ai quali si possano dare giudizi estetici si discute già in un saggio del 1967 di Serge Doubrovsky, uno storico francese di origine polacca, secondo il quale non esistono, appunto, dei parametri di valutazione rigorosamente oggettiva. Ciò non significa, tuttavia, che si debba rinunciare a formulare giudizi che abbiano un qualche fondamento, ovvero che poggino su argomentazioni e non su semplici impressioni. Se non esistono criteri oggettivi, esistono pur sempre dei criteri più o meno opportuni da impiegare per giudicare un’opera d’arte teatrale o un’opera d’arte tout court. Anzi, per certi aspetti il teatro offre più possibilità di individuare possibili criteri di giudizio rispetto a un dipinto astratto o a un’installazione, poiché il teatro è anche artigianato, almeno nella misura in cui è fatto di corpi, movimenti e voci.

Dunque, possiamo inventarci pareri, possiamo cercare di teorizzarli, ma non esistono di per sé. Non esiste, è vero un unico parametro. Studiare la storia del teatro e l’allenare in maniera costante e continua l’occhio e, di conseguenza, l’animo alla visione di spettacoli, alla partecipazione anche da esterno di laboratori e workshop è fondamentale. Così come fiancheggiare gli artisti nei loro processi e non soltanto fino al prodotto finito. Facile gettare inchiostro dopo una prima, laddove non “è piaciuto” e non sapere sempre il perché si è arrivato a un certo giudizio finale.

Come il teatro è un processo indefinibile così dovrebbe essere lo stesso il lavoro del critico: uno storico, un indagatore costante su quello che è, semplicemente da secoli, lo specchio politico della società fatto non soltanto di pizzi e burlesque, di scenografie importanti e luci introspettive; composto non soltanto da testi classici o contemporanei. Ma anche da silenzi, dal rispetto di questi. Perché persino attraverso l’assenza dai palcoscenici il critico/indagatore ha il dovere di studiare in totale rispetto, talvolta in silenzio evitando l’eccesso di parole su parole che, poi, diventano ridondanti e luoghi comuni e che possono correre il rischio di mettere in ulteriore crisi attori, compagnie. È come chiedere in continuazione di dimostrare qualcosa a qualcuno laddove non c’è possibilità o intenzione di farlo. Eppure si continuano a leggere articoli, su articoli di ciò che è stato e non di ciò che è pur di apparire attraverso il corpo dell’attore, mettendo questi ultimi in ombra e cercando l’occhio di bue con fretta famelica e un po’ di successo.

Lo storico indagatore dovrebbe stare nascosto, nella totale umiltà di chi studia il teatro senza cercare lustri.

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