RUMOR(S)CENA – SIRACUSA – Succede che sei in scena. Teatro piccolo, spettacolo intimo, monologo. Il climax emotivo e ironico è calibrato con precisione millimetrica. E all’improvviso… squilla un telefono. In sala.
L’avviso c’era stato. Ma non è bastato. L’attrice, eroica, ferma la scena:
«Se suona il telefono, io mi fermo. Ok?»
Lo dice restando nel personaggio. Gelo.
Poi riprende, meravigliosamente. Ma qualcosa si è incrinato.
Il clima è cambiato. Si ride meno.
Lo spettatore incriminato, per il resto dello spettacolo, inizia a sbadigliare sonoramente: un segnale acustico di vendetta passivo-aggressiva ostinata. Io, dalla regia, non so se indignarmi o abbandonarmi al godimento antropologico del fenomeno. E opto per la seconda (tanto lo spettacolo lo conosco bene). Osservo come se fosse un esperimento in tempo reale di semiologia teatrale, un caso da manuale di dinamiche spettatoriali: quando l’attore sgrida – appunti su pedagogia scenica e ritorsioni plateali.

Succede che l’energia si spezza, si riorganizza, si ammacca, si riplasma.
Sicuramente, almeno per un po’, qualcuno, preso da qualsivoglia reazione/riflessione attorno al fatto, vuoi anche per ammirare il coraggio dell’attrice e la sua repentina ripresa, ha perso quel filo teso e vibrante che tiene unita una rappresentazione come un nervo scoperto. In camerino, discussione accesa con l’attrice: «Non lo fare più», dico io. «Per rispetto verso gli altri spettatori.»
«Lo rifarei», dice lei. « mi sono saltati i nervi e poi il pubblico va educato.»
E qui si apre la voragine filosofica fino a notte fonda: va salvato lo spettacolo o educato il pubblico? Qualche giorno dopo, cambio prospettiva: mi concedo il privilegio della visione. Mi siedo tra le gradinate antiche del Teatro Greco di Siracusa per assistere a Elettra, la tragedia di Sofocle, portata in scena con rigore e lucidità visionaria da Roberto Andò.
L’annuncio iniziale è solenne: «Spegnete i cellulari. No video. No foto.» Parole scandite come un’invocazione sacra. Il rito può cominciare. Ma qualcosa mi resta addosso. Un’allerta. Una tensione latente. Una domanda: questa soglia, verrà rispettata? La scena si apre su un paesaggio inclinato, disturbato, come il linguaggio del sogno. La scenografia di Gianni Carluccio evoca una casa franata, un’architettura del trauma. È un ambiente spoglio, essenziale, che rinuncia alla classicità marmorea per restituirci un interno mentale: una mente crepata, una memoria che non regge più. Il corpo di Elettra si muove lì dentro come un sintomo.
Non più solo figura mitica, ma creatura depressa, collassata su sé stessa, figlia non solo dell’ingiustizia, ma della disfunzione. Non c’è solo vendetta, in lei. C’è apatia, solitudine cronica, pulsione di morte.

Sonia Bergamasco la interpreta come una donna psichicamente implosa:
non più giovane, non più viva, intrappolata nel passato come in una diagnosi. Sporca, scalza, scorticata. Incrostata di silenzi e desideri impronunciabili. Il suo dolore non si esprime, trasuda. È un odore stagnante che il pubblico respira senza rendersene conto. La modernità evocata da Roberto Andò non è gridata, ma è ovunque: nei costumi di Daniela Cernigliaro – sobri, neri, atemporali, che potrebbero appartenere a un dopoguerra o a un’era futura – nelle luci fredde che si accendono dopo il tramonto, nelle partiture vocali quasi cinematografiche, nel ritmo che non cerca solennità ma incalzante desolazione. Clitemnestra, scolpita da Anna Bonaiuto, è algida, imperiale, sfaccettata: una madre mostruosa e razionale, che tenta persino di convincerci. Dietro di lei si intravede l’ombra del suo nuovo compagno, Egisto, mai veramente in scena ma presente come simbolo: l’usurpatore, l’altro padre, colui che occupa lo spazio lasciato dal sangue.

Crisotemi interpretata da Silvia Ajelli è la sorella pavida, una voce di rinuncia. Oreste è Roberto Latini, quando arriva, non porta salvezza ma un’eco d’abisso: non è l’eroe della riconciliazione, ma un fratello spettro,
che torna per compiere un rito senza fede, un delitto meccanico. E mentre sulla scena si consuma questo paesaggio dell’anima, al mio fianco una madre ascolta messaggi vocali – senza auricolari: il figlio, rimasto a casa, prima chiede dove sono le chiavi. Poi: «Mamma, non trovo la maionese.»

Poco dopo, due file dietro, una donna risponde al telefono: «No, sono a teatro… sì, proprio adesso. Sì, bellissimo. Sì, ti richiamo.» Suo figlio la guarda male. Un piccolo gesto. Una resistenza. Un inizio? La scena si tende. Due dolori si affrontano: quello della madre, che ha ucciso per sopravvivere;
e quello della figlia, che non può vivere finché non avrà ucciso. Ma tra le parole onore, giustizia, vendetta, sento vibrare un altro suono. È WhatsApp. Il momento del riconoscimento tra Oreste ed Elettra dovrebbe essere un’apoteosi. Ma attorno il pubblico è diviso: alcuni applaudono, altri cercano l’inquadratura perfetta. Lo spettacolo va avanti, ma in due direzioni opposte. L’ultima immagine: Elettra raccolta in posizione fetale, appoggiata a un pianoforte – è una richiesta d’ascolto. Una preghiera muta.
Visto al Teatro Greco di Siracusa il 26 maggio 2025