Recensioni — 01/11/2016 at 23:59

L’estate dei festival: un teatro che chiede conferme e suscita dubbi

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REDAZIONE – L’estate dei festival  visti da sud a nord e viceversa. Un teatro che chiede e ottiene (qualche) conferma e suscita (molti) dubbi. Un lungo viaggio estivo attraversando l’Italia, fino ad arrivare a luoghi sperduti, in paesi della provincia, dove sembra che tutto scorra più lentamente. Uno sguardo itinerante compiuto tra maggio e settembre. Arrivi e partenze con destinazioni diverse tra di loro per tipologia, geografia, e soprattutto direzione artistica: non significa solo ed esclusivamente un nome e cognome di un direttore di festival, bensì anche un progetto, ragionato e indicativo delle scelte fatte, da parte di chi dirige e ha la responsabilità di gestire, tra tanti ( forse troppi) festival e rassegne teatrali. Per nulla facile districarsi tra decine e decine di spettacolo, visti i risultati, osservati in una prospettiva di visione allargata e trasversale. Un calendario di programmi tra i più diversificati ma con un indicatore spesso comune: la poco originalità (se esiste ancora) di un teatro capace di innovazione e ricerca, se condotta con serietà e approfondimento culturale. Parliamo del cosiddetto teatro contemporaneo (forse già diventato di tradizione), in cui c’è spazio per una gamma di stili che vanno dal performativo a quello civile, al sociale, al teatro d’arte; dove tutto appare (troppe volte) scontato per le tematiche agganciate al nostro “quotidiano”. L’impressione sembra quella di assistere ad un genere sempre più improntato al racconto, ad una narrazione fine a se stessa, divisa tra etica e morale dove il lieto fine o almeno quello più salvifico, è stato ormai sorpassato dalle vicende della cronaca nera, giudiziarie, politiche. Un teatro, a volte (e questo ci sembra positivo) in grado di sostenere diritti negati o contrastati dentro la nostra stessa società.

La scrittura si fa portavoce di un’umanità divisa tra il macabro, il patologico, la rappresentazione di sofferenze, disagi, disabilità, diversità, solitudini sociali e affettive. Difficile ormai ridere o sorridere a teatro. Se sia frutto di impegno e ricerca mirante a “denunciare” (il teatro ha da sempre questo compito tra le sue responsabilità), non è semplice decifrarlo, stando seduti (spesso) in luoghi non convenzionali, sui treni, nei boschi, in castelli o ex officine meccaniche. Spesso in soffocanti spazi dove il caldo ottenebra le menti e rende faticosa la visione e chissà perché bisogna soffrire – a prescindere dalla visione. L’estate invoglia ad aprire le menti, ad una visione dove ci lascia trasportare verso orizzonti, là dove il luogo geografico che ospita un festival, offre anche l’opportunità di conoscere la sua Storia, le sue tradizioni, l’arte. Una cucina dai sapori antichi e casalinga, merita spesso il viaggio, al fine di soddisfare il palato, rimedio palliativo per la delusione e la noia provata nell’assistere a rappresentazioni superficiali, sciatte, poco ordinate, irrispettose dei canoni fondamentali dell’arte scenica. Non è tutto “oro quello che luccica”, in teatro, e di conseguenza si fa anche fatica a scriverne. L’Italia teatrale è ricca di festival: nascono e proliferano ovunque, spesso con poche risorse, finanziamenti pubblici decurtati, veti e conflitti politico amministrativi, direzioni artistiche a rischio d’incarico, produzioni allestite in pochi giorni.

L’annoso problema dei debutti, dei primi studi, le anteprime nazionali e una rincorsa generale nel portare in scena, progetti a cui manca una seria e compiuta drammaturgia, poche idee, anzi tante (a volte) ma di scarsissima qualità. Pubblici assuefatti, spettacoli a cui assistono solo o quasi operatori e critici. Eppure non mancano gli artisti capaci di emozionare e raccontare con linguaggi scenici di forte impatto. Come non manca quella professionalità indispensabile per alimentare una delle arti a cui non possiamo rinunciare.

Quello che resta dopo un lungo peregrinare è la sensazione di aver visto pochi progetti che restano nella memoria visiva e intellettiva, per emozioni e vissuti, elaborate e depositate come un’eredità artistica e culturale, a fronte di chi, invece, non ha saputo dimostrare le proprie intenzioni artistiche e registiche; cedendo ad un facile consenso che spesso si percepisce tra il pubblico. Accade di sovente di assistere ad un plauso incondizionato (non convinto ma piuttosto benevolo), dove l’artista viene gratificato come atto dovuto, compreso nel prezzo del biglietto. Nessuna reazione che possa mettere in discussione, o far capire – almeno – un giudizio critico per i tanti dubbi e interrogativi sorti durante la visione. Non significa svalutare l’apporto degli spettatori ma è innegabile la percezione nel registrare una sorta di anestesia collettiva che “addormenta” qualunque reazione.

Spesso sono applausi di maniera. Detto questo, che fa parte di un ragionamento più ampio e generale, dovendo scegliere di citare solo alcuni degli spettacoli visti, tra i  tanti, e darne conto con molto ritardo rispetto alle tempistiche abituali che una recensione dovrebbere avere, Rumor(s)cena inizia da qui a “viaggiare” partendo da Sud per poi risalire la penisola.

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