ALTRITEATRI, Chi fa teatro, Pensieri critici, Teatro — 28/04/2020 at 15:25

Quale futuro per il teatro dopo il Covid-19? Il pensiero della Compagnia servomutoTeatro

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Se ti chiedessi sull’arte, probabilmente mi citeresti tutti i libri di arte mai scritti. Michelangelo: sai tante cose su di lui. Le sue opere, le aspirazioni politiche, lui e il Papa, le sue tendenze sessuali, tutto quanto, vero? Ma scommetto che non sai dirmi che odore c’è nella Cappella Sistina. Non sei mai stato lì con la testa rivolta verso quel bellissimo soffitto.1

RUMOR(S)CENA – SERVOMUTOTEATRO – Si fa un gran parlare in questi giorni delle nuove frontiere, delle nuove possibilità e -non di meno e più di tutto- delle nuove sfide che il Settore Teatro si trova oggi (e si troverà per un tempo al momento indefinito) ad affrontare a causa dell’emergenza sanitaria determinata dal Covid-19.

L’argomento principale (che risulta contemporaneo, nell’opinione di chi scrive, al problema delle tutele, della coscienza di sé come categoria, delle regole e dei contributi -tutte questioni su cui ci si interroga senza grandi progressi da molto tempo) è che i teatri rimarranno chiusi fino a data da destinarsi. Al di là di un sostegno economico che è giusto richiedere al nostro Ministero, cosa possono fare i teatri, le compagnie, gli artisti, le maestranze, i tecnici, gli organizzatori, e via discorrendo per continuare a produrre/proporre/promuovere la cultura?

Alcuni individuano nel digitale, nelle sue varie forme, una possibile soluzione.

Intendiamoci: la cultura con il digitale si può fare. Non vorrei rifarmi ora ad alcune infelici e famose affermazioni intorno a Netflix, ma è innegabile che Netflix, accanto a un certo numero di contenuti di puro intrattenimento esplosivo-chiassoso, renda fruibili anche un gran numero di contenuti di qualità, di documentari, di serie con intento divulgativo; tutti prodotti che è difficile non catalogare come “culturali”. La stessa cosa si può dire in riferimento a YouTube dove, accanto al video-dei-gattini-più-carini-del mondo, spiccano per numero di visualizzazioni le lezioni storico-culturali del professor Barbero, le inchieste di Lucarelli e così via. Certo, assistere a una lezione del professor Barbero dal vivo è un’altra cosa, come di sicuro osservare la superficie della luna dall’Apollo 11 dev’essere stata una cosa ben diversa dal vedere oggi un documentario sull’allunaggio, ma non tutti possiamo essere astronauti, mentre il professore è abituato a tenere le sue lezioni in radio, e tanti video YouTube sono in realtà immagini fisse che accompagnano la registrazione di un suo intervento.

La cultura, insomma, si può fare -e già in parte si fa- anche online, in video/radio e così via.

Si potrebbe anche qui aprire il discorso delle differenze tra cultura e sua divulgazione, ma evitiamo per un momento. Ovviamente i contenuti così fruiti presentano la possibilità di distrazioni soggettive: Barbero si ascolta magari mentre si lavano i piatti, Lucarelli magari mentre ci si fa la barba, Netflix può essere stoppato, mandato indietro, avanti e via dicendo. Esiste una possibilità di distrazione o, se preferite, esiste la democratica possibilità di manipolare l’ordine cronologico con cui fruiamo del contenuto 2.

Se la cultura online si può fare, per il teatro il discorso è un po’ più complesso.

1 Good Wiill Hunting, regia di Gus Van Sant, 1997
2 Si potrebbe parlare di ipertesto, in un certo senso. 

Uno spettacolo dal vivo, una volta iniziato, di norma non si interrompe, non torna indietro e non manda avanti delle scene. Non vorrei dilungarmi o procedere per luoghi comuni: il mio pensiero, in un certo senso, si identifica con la citazione in apertura -l’avranno riconosciuta in tanti- da Will Hunting – Genio ribelle. Il video (se è ben fatto, perlomeno) può aiutare a recuperare degli spettacoli di archivio, può mettere in contatto con una tradizione che (essendo a suo tempo avvenuta dal vivo) non potrebbe essere altrimenti disponibile ma non restituirà mai le sensazioni vissute in sala quella sera in cui è stato registrato. In modo simile, posso studiare gli appunti di regia di Stanislavskij per Il Gabbiano, ma non saprò mai cosa abbia voluto dire assistere alla prima rappresentazione 3 – al Teatro dell’Arte di Mosca nel 1898 – questo non lo troverò in alcun video, se mai ne esistesse uno.

Questo vale per gli spettacoli passati, irrecuperabili perché spesso non-replicabili. Ma per quelli a venire, o quelli che stavamo allestendo prima di fermarci, deve valere lo stesso discorso? Vogliamo rinchiuderli nei formati destinati agli spettacoli non-replicabili prima ancora della prima replica?

Sempre evitando di scomodare Walter Benjamin o il teatro greco o il rito collettivo o di citare Peter Brook 4, mi sento di affermare che il teatro si fa solo in presenza, quando un pubblico -che non può mandare avanti e indietro il nastro, non può lavare i piatti o andare in bagno- decide di ritagliare un momento collettivo e dilatato nella propria frenetica routine -durante la quale di solito controlla modalità e tempi di fruizioni dei contenuti (che siano i gattini o Netflix o gli articoli di giornale di cui è indicato il tempo di lettura)- per affidarsi a delle altre persone, presenti, palpabili e vive, che a loro volta si affidano al pubblico. In buona sostanza è un dialogo. Sono luoghi comuni, mi rendo conto, ma sono tutti veri, e aiutano il discorso. In teatro ci sono azioni e reazioni; si può abbandonare la sala, si può applaudire, si può fischiare: il pubblico c’è e sta prendendo parte allo spettacolo -a volte di più, a volte di meno, d’accordo, ma anche nei più rigidi spettacoli dotati di quarta parete un attore percepisce il pubblico e se ne nutre. E di sicuro il pubblico si nutre dell’attore.

Il punto del discorso credo sia chiaro: diversamente da quanto avviene a teatro, posso stoppare un intervento del professor Barbero, decidere di non ascoltarlo oltre e lui non lo saprà mai 5.

Gli spettacoli cambiano, con il pubblico. Lucarelli continua a parlarmi della trattativa Stato-Mafia anche se vado in una stanza diversa. Netflix va avanti nella riproduzione anche se mi alzo dal divano per lanciare la palla al cane o per togliergli di bocca la mia ciabatta. Ci siamo dimenticati di cosa può fare il teatro quando dialoga davvero con un pubblico nel momento in cui abbiamo deciso che la sua funzione principale era l’intrattenimento. La consolazione. Lo scollegamento dal mondo.

Ma il problema non è solo il rapporto con il pubblico

Ad oggi, con le regole di distanziamento in vigore, l’uso del video non pone una barriera solo tra spettatori e attori, ma tra gli attori stessi. Senza potersi riunire e provare -o potendolo fare solo a un metro di distanza- che tipo di spettacolo si potrebbe realizzare all’infuori del monologo 6? Per concludere, chi scrive pensa naturalmente che il teatro che abbiamo fatto fino ad oggi abbia grossi margini di miglioramento, come tutte le cose. Sicuramente dal punto di vista delle regole e delle tutele (di cui non vorrei parlare qui) ma anche e soprattutto dal punto di vista artistico.

Esistono delle forme che gli artisti possono provare ad esplorare? Indubbiamente. Il video, il digitale, stanno lentamente entrando nei teatri con esperimenti più o meno riusciti -le strade sono infinite. Possono gli infiniti LED di uno schermo lavorare a servizio di uno spettacolo insieme agli artisti in carne ed ossa? Certamente. Conviene per queste forme parlare di teatro, scomodare i teatranti, e le altre maestranze (più numerose degli artisti) che sono teatro anche loro? E quei LED di cui sopra possono sostituirsi in presenza come intermediario con il pubblico o colmare la distanza dovuta dal fatto che i due attori sono ognuno a casa propria, collegati in streaming? Qualche dubbio (grosso) rimane.

Allora niente si può fare?

Ci sono di sicuro delle consuetudini cristallizzate nei secoli (il teatro, si dice, è l’invenzione più antica del mondo dopo la clava), di sicuro esiste una quota di artisti che per pigrizia o mancanza di lenti per leggere il mondo pretende di non cambiare nulla di quanto ha sempre fatto. Di sicuro il teatro avanza delle pretese che qualcuno, da lontano, può intendere come capricci; la presenza del pubblico non credo sia una di queste.

Possiamo anche concordare sul fatto che esistono delle possibilità di sperimentazione che prevedono la distanza, il digitale, lo streaming e l’assenza di pubblico. Ma non è il caso di chiamarlo teatro.

Dobbiamo chiamarlo con altri modi, e magari alcuni di noi scopriranno nei prossimi anni di essere incredibilmente portati, che le potenzialità sono illimitate, e via dicendo. Probabilmente trionferà il lato dell’intrattenimento, aiuterà a riempire i tempi vuoti (piatti-barbatv); un po’ meno probabilmente parlerà di noi; ancor meno probabilmente ci sentiremo chiamati in causa come spettatori quando l’attore, fissando l’occhio nero e vuoto e opaco della telecamera si rivolgerà a noi e ci guarderà senza davvero fissarci negli occhi -in definitiva, noi non saremo là con lui. In ogni caso sarà difficile essere più bravi di Netflix a proporre intrattenimento di qualità; di sicuro sarà impossibile essere competitivi dal punto di vista economico e produttivo. Facciamo un lavoro preciso, dovremmo ricordarcelo.

3 La prima rappresentazione, come è noto, è del 1896 a Pietroburgo, un fiasco colossale. Qui si intende, per esemplificare, la prima rappresentazione capace di restituire il valore del testo di Čechov.

4 “Posso scegliere uno spazio vuoto qualsiasi e decidere che è un palcoscenico spoglio. Un uomo lo attraversa e un altro lo osserva: è sufficiente a dare inizio a un’azione teatrale.” 5 Mai successo, voglio rassicurare tutti: per le lezioni del prof. Barbero, com’è noto, si sviluppa in breve una specie di dipendenza patologica.

6 Perché allora diciamolo: se due attori rimangono a distanza lanciandosi parole da un metro l’uno all’altro, senza potersi avvicinare e anzi rimanendo concentrati nel misurare costantemente le distanze per non entrare nella zona di pericolo, allora si assiste a due monologhi alternati, non a un dialogo**.

* Peter Brook, Lo spazio vuoto, Bulzoni Editore, Roma, 1998, p.21. Alla fine, ho messo esattamente la prevedibile e inflazionata citazione che mi ero ripromesso di non adoperare. 
** Voglio dire: questo rischio esiste anche al di fuori delle limitazioni e del distanziamento, in mancanza di ascolto in scena.

Non perché sia migliore di altri, ma perché nasce da un presupposto specifico -la relazione- che oggi ci sembra di poter mutuare tramite una fibra ottica e scambiare con una buona connessione e invece è la cosa più antica del mondo e lo può cambiare, il mondo, quando dialoga con esso. Nella scena di Will Hunting citata poco fa, il professore McGuire interpretato da Robin Williams conclude così:

Non c’è niente che possa imparare da te che non legga in qualche libro del cazzo. A meno che tu non voglia parlare di te, di chi sei. Allora la cosa mi affascina.

firmato Michele Segreto Presidente, servomutoTeatro, Roberto Marinelli, Michele Mariniello, Marco Rizzo, Sara Drago, Tabata Matilde Monico

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