Chi fa teatro — 28/05/2012 at 14:32

L’ “Hamlet” di Lenz Rifrazioni: al Farnese di Parma l’amletudine che parla di noi

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Dopo aver abitato gli spazi della Rocca dei Rossi di San Secondo e della Reggia di Colorno, gli attori sensibili di Lenz Rifrazioni, si materializzano nei meravigliosi ambienti del Teatro Farnese e della Galleria Nazionale di Parma per presentare la propria riscrittura di Hamlet.

Guidati dalla regia di Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, gli attori, ex-degenti psichiatrici, impegnati da diversi anni in un intenso percorso artistico, presentano, a una ridotta platea in movimento, il risultato di un lavoro creativo straordinariamente riuscito. Una versione dell’Amleto nuovissima in cui l’invenzione drammaturgica e registica trovano terreno fertile in una condizione attoriale specifica, in cui la biografia, le ferite e il vissuto degli interpreti fanno irruzione nel testo di base, scardinando il principio di finzione che regola la scena convenzionale.

Concepito in forma di spettacolo itinerante, l’Hamlet del Lenz diviene un pellegrinaggio spirituale ed estetico attraverso le stazioni di una via crucis laica. Un addentrarsi fisico e mentale sempre più abissale nelle intime stanze della psiche e della matericità corporea degli attori. Un camminamento comunitario lungo le tappe di un testo scomposto e ricostruito, tagliato e ricucito sotto la pelle degli artisti, innestato nella loro intima essenza attraverso un processo creativo circolare, fatto di input e reazioni. Non versi attaccati ai corpi, dunque, ma parole prima perdute e poi ritrovate, reinventate, riabilitate nel loro valore espressivo dalla pienezza della vita vera.

Dalla contrapposizione attori/parole si genera un testo completamente diverso rispetto a quelli cui ci ha abituati la scena contemporanea, ripulito dagli aloni di solennità ingiallita, e rinvigorito dalla forza della parola viva, che restituisce l’Amleto a un senso o ai sensi della contemporaneità. Sgrassato dalla pesante monumentalità che gli si era incollata addosso nel corso dei secoli, il linguaggio dell’autore elisabettiano ritrova nella “riscrittura” di Pititto i colori vividi della verità comunicativa e, ciò che più stupisce, quella polifonia tipica dell’originario shakespeariano. Aggiungono valore, dunque, la cadenza dialettale degli attori in scena e l’alternanza di genuina ironia di alcuni passaggi, affidati per lo più all’Hamlet di Paolo Maccini, a spazi verbali lirici e poeticamente densi incarnati con una tragicità primordiale e commovente da Barbara Voghera.

E proprio Paolo e Barbara inaugurano sullo scalone del Palazzo della Pilotta L’Hamlet del Lenz. Nei panni, entrambi, di Amleto, con ai piedi delle Converse nere. Ciceroni atipici di un labirinto in cui agli occhi degli spettatori, immersi in una luce glaciale che crea presenze spettrali e ombre nette e inquietanti, si presentano Tre Amleti, metonimie visibili dell’amletudine che riguarda ciascuno dei presenti e, di volta in volta, personaggi chiave del testo celeberrimo in preda ai propri turbamenti. I volti dipinti di bianco, con tocco leggero e impreciso, come maschere destinate comunque a sciogliersi al primo fiato caldo.

A interagire con la dimensione umana, quella virtuale dei video. Fin dalla scena delle scale di Elsinore/Palazzo della Pilotta, sui muri vengono proiettate immagini degli attori catturate in momenti paralleli di prova o di quotidianità ricostruita. Che si tratti di proiezioni o di trasmissioni su piccoli schermi montati lungo il labirinto, è interessante il dialogo tra le presenze vere e quelle virtuali. I video paiono calcare la carnalità delle figure mostrandone i dettagli fisici più sgradevoli e invisibili sulla scena, calcando l’imperfezione dei corpi. Rendendoli, insomma, più reali di quelli reali.

Se a questo si aggiunge che le proiezioni non si adagiano su superfici neutre ma vengono assorbite e filtrate da opere d’arte già presenti nel percorso della Galleria Nazionale, si completa il quadro di una composizione artistica in cui ogni elemento, anche quello pseudo-casuale contribuisce a strutturare tante piccole e preziose porzioni di significato. Così, la scena di Laerte (Mauro Zunino) e Ofelia (Delfina Rivieri) nella sala dei busti rende i due attori essi stessi busti marmorei capaci, però, di prendere vita. E l’imperfezione fisica di Enzo Salemi, nel ruolo di Amleto, proiettata nella sua nudità in scala gigante sul muro, stride con la perfezione dell’Ercole romano in bronzo che troneggia nella sala in cui si svolge la scena dei tre Amleto che inneggiano alla bellezza dell’uomo, guarda caso.

L’intero percorso è disseminato di opere che gettano una luce nuova sulle parole e sui corpi degli attori inscrivendosi a pieno titolo nella drammaturgia. Sculture di corpi mutilati e patologici accolgono gli speciali visitatori nella prima parte del cammino per lasciare spazio, poi, a grandi tele e in particolare al dipinto di Araldi, il San Sebastiano con la freccia conficcata nel mezzo della fronte. Emblematica pure la proiezione della scena di pentimento/preghiera impregnata di pathos di re Claudio (Guglielmo Gazzelli) sullo sfondo di una tela a soggetto religioso.

Lo spettatore, cui viene rifiutato un punto di vista pre-orientato, si trova implicato in un’atmosfera tipicamente onirica, complice la luce, in cui ogni cosa sembra a un tempo reale e sfuggente, in cui ogni dettaglio ha carattere materico e nebuloso insieme. Una posizione di prospettiva molteplice in cui i piani sensoriali si sovrappongono determinando una condizione percettiva impossibile da tradurre verbalmente sebbene fisicamente identificabile. Difficile non cedere, in numerosi momenti, alla tentazione di lasciarsi cullare dalle immagini che scorrono, prediligendo unicamente l’apparato visivo. La costrizione al movimento, necessario per esplorare i quadri viventi, tuttavia, obbliga a una continua rinegoziazione della propria condizione di ascolto e di visione, contribuendo a tenere gli spettatori svegli all’interno della bolla onirica creata.

Qui o non qui, recita Barbara Voghera/Amleto a chiusura di un finale che accoglie, nella scenografica vasca del Farnese, i momenti più belli in assoluto, dal suicidio di Ofelia alla scena dei tre becchini (in questo caso i tre Amleti) fino al monologo celeberrimo di Amleto, To be or not to be, modificato in qui o non qui, appunto, e dislocato al termine, a suggello di uno spettacolo in cui visibile e invisibile, materialità e immaterialità, verità e finzione si fondono e si sublimano nell’arte.

 

Visto al Teatro Farnese di Parma il 24 maggio 2012

 

Creazione | Maria Federica Maestri | Francesco Pititto
Traduzione | drammaturgia | imagoturgia | Francesco Pititto
Regia | scene | costumi | Maria Federica Maestri
Musica | Andrea Azzali_Monophon
Interpreti | Franck Berzieri | Giovanni Carnevale | Guglielmo Gazzelli | Paolo Maccini | Luigi Moia | Delfina Rivieri | Vincenzo Salemi | Elena Varoli | Barbara Voghera
Responsabile del progetto riabilitativo | Paolo Pediri
Direzione scientifica | Rocco Caccavari
Produzione | Lenz Rifrazioni

 

 

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