Chi fa teatro, Recensioni, Spettacoli — 28/02/2016 at 22:59

Sogno, paura, visione, immaginazione nei “I giganti della montagna”

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ROMA – In una lettera ai famigliari, datata 4 dicembre 1887, Luigi Pirandello scriveva: «Oh, il teatro drammatico! Io lo conquisterò. Io non posso penetrarvi senza provare una viva emozione, senza provare una sensazione strana, un eccitamento del sangue per tutte le vene. Quell’aria pesante chi vi si respira, m’ubriaca: e sempre a metà della rappresentazione io mi sento preso dalla febbre, e brucio. È la vecchia passione chi mi vi trascina, e non vi entro mai solo, ma sempre accompagnato dai fantasmi della mia mente, persone che si agitano in un centro d’azione, non ancora fermato, uomini e donne da dramma e da commedia, viventi nel mio cervello, e che vorrebbero d’un subito saltare sul palcoscenico». Il futuro drammaturgo, ancora studente, traccia con estrema chiarezza quello che sarà il suo percorso nel teatro italiano e che approderà all’ultima opera rimasta incompiuta, I giganti della montagna, che si pone come sintesi e riaffermazione dei propositi che il giovane Luigi aveva in mente all’inizio della sua carriera. Al Teatro India di Roma è andato in scena una versione del dramma  ideato da Roberto Latini e dalla sua Compagnia Fortebraccio Teatro, che si riaggancia pienamente alle parole del giovane autore siciliano e fa emergere l’essenza dell’ultimo suo capolavoro. Appartenente alla cosiddetta fase surrealista , la vicenda del gruppo di attori, guidati dalla contessa Ilse, che giunge nella villa di Cotrone, chiamata La Scalogna, per mettere in scena La favola del figlio cambiato (scritta anch’essa da Pirandello), diventa un pretesto  per esplorare e far emergere il suo mondo onirico, fatto di sogni ma anche di paure, un mondo che parla dell’arte e si interroga su se stessa.

foto di Simone Cecchetti
foto di Simone Cecchetti

Roberto Latini ha maestosamente afferrato l’onirismo dell’opera pirandelliana, le paure dello scrittore, questa profonda riflessione analitica dell’incompiutezza dell’opera e la maestria della sua regia, esaltandola come grande stimolo per il teatro: «Non aggiungerò parole alla trama, ma voglio dire di altre possibilità che vorrei assecondare. La più importante è rispetto al fascino del “non finito”, “non concluso”; all’attrazione che ho sempre avuto per i testi cosiddetti “incompiuti”. Sono così giusti rispetto al teatro: l’incompiutezza è per la letteratura, per il teatro è qualcosa di ontologico. Trovo perfetto per Pirandello e per il Novecento che il lascito ultimo di un autore – così fondamentale per il contemporaneo sia senza conclusione. Senza definizione. Senza punto e senza il sipario di quando c’è scritto – cala la tela. Voglio rimanere il più possibile nell’indefinito, accogliere il movimento interno al testo e portarlo sul ciglio di un finale sospeso tra il senso e l’impossibilità della sua rappresentazione».

È dal finale incompiuto che scaturisce l’inizio dello spettacolo di Roberto Latini, quel “Ho paura” pronunciato da Diamante, che accompagna lo spettatore, prima di immergerlo in una strana atmosfera, nebulosa, evanescente, stranamente illuminata, che grazie alla sequenza di velatini che scendono sul palcoscenico diventa ancora più impalpabile; un’atmosfera resa ancora più straniante da un lampadario che oscilla sulla scena, e resa ancora più misteriosa da una vegetazione arida, fatta di spighe di grano che creano la profondità dello spazio e i suoi livelli. In questo habitat si muove il protagonista (e regista) , gigante tra i giganti, unico attore in scena, che “interpreta” tutti i personaggi, che presta il suo corpo all’incessante fluire e defluire dei fantasmi pirandelliani. Latini è uno sciamano, evoca di volta in volta gli spiriti dei personaggi del dramma che si appropriano di lui e si lasciano intravedere agli spettatori. Il suo corpo è lì, pronto a far emergere dalla sua interiorità le voci di tutti i personaggi, quei fantasmi che vivono nella sua mente. Sono voci che si fanno materiche, che escono dal corpo e rimbombano nell’atmosfera; voci in falsetto, voci dal timbro basso, voci naturali, voci strozzate, voci che vengono scandite a ritmo di rap, voci amplificate dai microfoni che permettono all’attore di lavorare su una drammaturgia vocale, voci che si intersecano ai suoni del tappeto sonoro, creato da Gianluca Misiti e alle didascalie dei velatini, creando una narrazione multilivello. Sono le voci della compagnia, di Ilse e del Conte, degli Scalognati e di Cotrone, voci che si rincorrono, si sovrappongono, cercano di emergere singolarmente, ma alla fine devono cedere il passo alla propria fragilità, a quel “Non ho paura” iniziale che come un comandamento guida tutta la messa in scena.

foto di Simone Cecchetti
foto di Simone Cecchetti

La peculiarità e la grandezza di Roberto Latini  risiede nell’avere  colto a pieno l’essenza drammaturgica del testo , tramutandola in evocazioni visive e sonore, in cui l’habitat scuro, schiarito a tratti da luci di taglio, coperto da densi fumi o da una pioggia di bolle si interseca ai suoni ambientali (lampi, pioggia, corvi) e agli echi dei fantasmi, asciugando la messa in scena e mantenendo intatta la drammaturgia. Se come performer carica su di sé tutti i personaggi, come regista impersona perfettamente il ruolo di Cotrone. Il mago, infatti, a un certo punto della vicenda si rivolge a Ilse dicendo:

«Siamo qua come agli orli della vita, Contessa. Gli orli, a un comando, si distaccano, entra l’invisibile: vaporano i fantasmi. È cosa naturale. Avviene, ciò che di solito nel sogno. Io lo faccio avvenire anche nella veglia. Ecco tutto. I sogni, la musica, la preghiera, l’amore… Tutto l’infinito che è negli uomini, lei lo troverà dentro e intorno a questa villa».

In questa versione dei I giganti, si evidenzia il potere di rimuovere quegli orli che tante regie contemporanee scontate e banali, continuano a immettere nel dramma pirandelliano. Non ha fatto un miracolo, ha semplicemente fatto teatro, ha materializzato i sogni e le paure degli spettatori davanti ai loro occhi. E così come per Ilse e la sua compagnia non ci sarà nessuna rappresentazione, allo stesso modo succede per la regia di Latini, che alla rappresentazione contrappone l’immaginazione, che nasce dalla parola e a essa ritorna, una parola che non spiega ma che evoca. D’altronde sarebbe impossibile rappresentare: I giganti non lo permetterebbero! Unica nota dolente è stata la scomodità del Teatro India, che non consente di godere appieno dell’ottimo teatro che propone a causa dei suoi deficit strutturali, primo fra tutti la non perfetta visibilità del palcoscenico dalle fila più alte e la sua scarsa  insonorizzazione, che ha consentito di fondere il diluvio verificatosi a Roma con il tappeto sonoro di Misiti.

 

I Giganti della Montagna
di Luigi Pirandello
adattamento e regia Roberto Latini
con Roberto Latini
musiche e suoni Gianluca Misiti
luci Max Mugnai
video Barbara Weigel
elementi di scena Silvano Santinelli, Luca Baldini
assistenti alla regia Lorenzo Berti, Alessandro Porcu
direzione tecnica Max Mugnai
movimenti di scena Marco Mencacci, Federico Lepri
foto Simone Cecchetti

produzione Fortebraccio Teatro
in collaborazione con
Armunia Festival Costa degli Etruschi
Festival Orizzonti . Fondazione Orizzonti d’Arte
Emilia Romagna Teatro Fondazione

Roberto Latini vincitore del Premio della Critica 2015 (ANCT) per I giganti della montagna
Gianluca Misiti vincitore del Premio Ubu 2015 come Miglior progetto sonoro o musiche originali
Spettacolo finalista al Premio Ubu 2015 come Spettacolo dell’anno
Roberto Latini finalista al Premio Ubu 2015 come Miglior attore o performer
Visto al Teatro India di Roma il 25/02/2016


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