RUMOR(S)CENA – VENEZIA – Theater is Body – Body is Poetry, il claim della Biennale Teatro 2025 (Venezia 31 maggio – 15 giugno) diretta da Willem Dafoe, ha trovato una delle sue più icastiche espressioni nel corpo esile, ma plasmato nel ferro di Ursina Lardi. L’attrice svizzera, che è stata insignita del Leone d’Argento, è la protagonista dell’ultimo lavoro di Milo Rau, Die Seherin (La veggente),una pièce dove rappresentazione teatrale e vita vissuta si fondono in maniera inestricabile.
Di fronte agli spettatori, nello spazio delle Tese dei Soppalchi, l’attrice si muove su una distesa di sabbia, coperta di erba secca, copertoni di auto, rifiuti; la sovrasta uno schermo che inquadra un paesaggio brullo all’interno del quale avanza un giovane uomo. Il suo racconto è autentico e si intreccia con la narrazione delle esperienze di reporter di guerra vissute dal personaggio interpretato da Ursina. È un cortocircuito dirompente quello che nasce dall’incontro con l’insegnante iracheno di Mosul, Hassan Azad, vittima delle leggi barbariche dell’Isis, condannato al taglio della mano destra come punizione per un presunto furto, e la personalità forte e tormentata della protagonista, sotto le cui spoglie trovano habitat le diverse anime del regista e frammenti della sua vita.

Andando col pensiero al mito greco di Filottete, il guerriero ferito e reso inabile alla guerra dal morso di un serpente e abbandonato dai suoi commilitoni su un’isola deserta, Rau si chiede come si possa elaborare un trauma in un contesto di guerra e se l’arte possa alleviare la sofferenza. Qual è il senso della violenza e perché è così seduttiva e ipnotica? Ce lo chiediamo anche noi come spettatori insieme alla protagonista che racconta delle proprie ossessioni di bambina affascinata da immagini brutali, e poi di fotografa che, come una sorta di veggente, una Cassandra dei nostri giorni, vede nella sua testa le immagini che poi scatterà. Raccontare la violenza, ma anche viverla sul proprio corpo: le accadrà quando verrà stuprata in una piazza della primavera araba e quando le riprese di quello stupro le troverà diffuse in rete trasformandola in un oggetto fotografico e creandole un’ulteriore e dolorosa ferita.

Come nella Medea presentata alla Biennale lo scorso anno, Rau dilata la violenza proiettandola sullo schermo, ma se là era finzione, questa volta assistiamo a un atto tragicamente vero, quello dell’esecuzione della pena comminata a Hassan Azad in un incrocio di strade a Mosul, tra l’entusiasmo della folla. Il filmato si interrompe un attimo prima del colpo di coltello, ma il senso di orrore è tangibile e sconvolgente. Così come appare sconvolgente l’espressione del volto di Ursina quando si riprende lei stessa in primo piano col cellulare nel rievocare l’abuso sessuale subito: un’incarnazione più che una rappresentazione.
Quella radicalità ed empatia nel suo modo di recitare di cui Willem Dafoe parla nella motivazione del Leone d’Argento è una dote che le appartiene, non solo sulla scena. Così appare chiaro nel discorso da lei pronunciato alla premiazione nel tracciare il compito di un artista di fronte ai soprusi della politica. «Celebriamo la capacità umana di poter fare un passo di lato –
nonostante tutto, nonostante gli intrighi del quotidiano e del presente politico – e di muoverci liberamente su un palcoscenico.
Senza paura, senza riserve. Con forza e fragilità, con la mente lucida e il cuore in fiamme. Perché questo è resistenza». Un discorso che illumina con la sua luce anche Die Seherin e allarga il campo di denuncia dalla violenza fisica a quella meno appariscente ma non meno dannosa perpetrata sul teatro e sull’arte.
È violenza sconcertante e ancor più enigmatica quella rappresentata da Romeo Castellucci nell’installazione I mangiatori di patate realizzata sull’isola del Lazzaretto Vecchio. All’interno dell’edificio dove nel XV secolo venivano internati i malati di peste, il regista crea dei quadri viventi in un’atmosfera cupa e carica di mistero. Un gruppo di 20 spettatori percorre i lunghi corridoi affacciandosi via via su stanze dove si consuma l’azione. Corpi chiusi in sacchi di plastica neri si muovono negli spasimi dell’agonia; suoni metallici, luci livide, e di colpo, in un buio totale, si viene investiti da un tornato di vento e polvere accompagnato da un rumore assordante, tale da minare il nostro senso di sicurezza.

Fino all’ultima stanza, dove un gruppo di minatori si prende cura del corpo inerte di una giovane donna che si anima e balbetta parole incomprensibili in una sorta di linguaggio stenografico battente. A partire dal titolo, che deriva il nome dal celebre quadro di Vincent van Gogh del 1885, fino alle figure dei minatori del Borinage, care al pittore, l’influsso dell’artista olandese sul lavoro di Castellucci si traduce in un carico di inquietudine e di angoscia esistenziale senza che un provvidenziale filo di Arianna si dipani dalla drammaturgia di Piersandra Di Matteo scandita dalle voci e dai suoni disturbanti creati da Scott Gibbons e Oliver Gibbons. Gli interpreti, Vito Ancona, Jacopo Franceschet, Marco Gagliardi, Vittorio Tommasi, Michela Valerio

Il fascino di un mito, quello della divinità sumera Inanna, raccontato in un poema antico di 5000 anni, prende corpo in The Inanna Project, il lavoro presentato in Biennale da Thomas Richards alla guida del Theatre No Theatre, il gruppo di attori nato dalle ceneri del Workcenter, da lui diretto dopo la morte del maestro Jerzy Grotowski nel 1999 e ospitato a Pontedera fino alla chiusura, tre anni fa. La chiave drammaturgica per raccontare la complessità e il dualismo della dea dell’amore, della bellezza e della fecondità che regolava i cicli della natura, e anche dea della guerra e della giustizia, è stata individuata dal regista nella multiculturalità dei suoi attori, a ciascuno dei quali ha affidato una parte della narrazione declinata nella lingua e nelle sonorità musicali della propria terra di origine.

Col pubblico a fare da corona alla performance degli artisti nello spazio delle Tese all’Arsenale, il racconto sumerico si articola per capitoli in ebraico, spagnolo, coreano, italiano- napoletano, inglese. Interpreti, Ettore Brocca (Italia), Alejandro Linares (Spagna), Hyun Ju Baek (Corea del Sud), Fabio Pagano (Italia), Jessica Losilla-Hébrail (Francia), Thomas Richards (Stati Uniti d’America), Kei Franklin (Stati Uniti d’America).
Una babele di lingue e linguaggi teatrali diversi, supportati da coinvolgenti canti a cappella capaci di veicolare emozioni autentiche. Va riconosciuta la bravura degli attori e la dedizione pedagogica di Richards, impegnato egli stesso nella parte dello sposo di Inanna, Dumuzi, tutti elementi di pregio alla cui efficacia tuttavia avrebbe giovato una maggiore asciuttezza esecutiva.
Si muove nell’ambito del mito, in questo caso è l’Edipo di Sofocle a dettare le linee guida, anche Princess Isatu Bangura, l’artista interdisciplinare, classe 1996, originaria della Sierra Leone. La sua dirompente forza fisica ed espressiva, la voce potente che si nutre delle radici afriche e delle esperienze della cultura occidentale, fanno presa sul pubblico, soprattutto sui giovani, che partecipano in maniera entusiastica alle sue performance.

Se il testo del monologo Blinded By Sight (Sala d’Armi E), la seconda delle opere portate in Biennale, non esce dai canoni di una generica rilettura dei temi cardine della saga greca riferiti al presente, la sua potenza comunicativa e l’intensità della sua energia creano una connessione empatica con gli spettatori. Gli interrogativi universali posti dalla vicenda di Edipo, il rapporto tra destino e libero arbitrio, il dolore della conoscenza, il peso della colpa, anche involontaria, che può segnare un’esistenza, si traducono più che nelle parole, nella fisicità e nella capacità narrativa dell’artista, accompagnata dalla musica di Edis Pajazetovic.
L’invito col quale la maschera ti accoglie all’ingresso della Sala Squadratori è quello di non applaudire al termine del rituale. Di fatto l’esibizione sul palco dell’Istanbul Historical Turkish Music Ensemble non è uno spettacolo, ma un rito religioso, che si svolge nel raccoglimento e nella spiritualità. Il Mevlevi Sema, cerimoniale,Sema, dell’Ordine Mevlevi, celebrato da musicisti e dervisci nel rispetto rigoroso delle fonti e delle tradizioni, segue fedelmente le modalità che si tramandano nei Mevlevihane, gli antichi conventi dervisci.

Guidati dal Meydanci Dede, la figura responsabile della sacra funzione, i Dervisci, deposti i neri mantelli (resim hirkasi), dopo una complessa ritualità, scoprono le loro vesti bianche a pieghe (tennûre) che esaltano il movimento rotatorio, il Sema, attraverso il quale l’anima si innalza verso la divinità. Completano l’abbigliamento la cintura (elifî nemed) e il sikke, il copricapo in feltro simbolo della tomba dell’ego. Le braccia che i dervisci incrociano sul petto prima di dare inizio alla rotazione si alzano poi verso l’alto in un movimento ascendente ipnotico tale da indurre al silenzio e alla meditazione. È il corpo che si fa espressione dell’anima e della sua estasi. Un tassello di pregio incastonato nel percorso etico e poetico della Biennale 2025.
Visti alla Biennale Teatro di Venezia il 14 e il 15 giugno 2025