Teatro “silente” o “presenzialista”? Gli artisti a confronto. Il pensiero del critico

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Studio e ignoto

di Enrico Piergiacomi

Enrico Piergiacomi è studioso di teatro e filosofia antica, attualmente affiliato all’Università degli Studi di Trento e alla Fondazione Bruno Kessler di Trento. In ambito teatrale, collabora soprattutto con le riviste Doppiozero, Gagarin, liminateatri e Teatro e Critica. Presso l’ultima sede, cura il progetto di alta divulgazione scientifica dal titolo Teatrosofia, dedicato alla ricostruzione delle idee dei filosofi antichi sul teatro e sull’arte dell’attore. 

La questione dibattuta in questo articolo è se abbia senso o no continuare a praticare il teatro nel periodo di fermo forzato per la crisi da Covid-19. Prescindendo dai personalismi, il dibattito coinvolge due gruppi: i “silenti da un lato, i “presenzialisti dall’altro. È anzitutto utile distinguere le ragioni delle due parti, prima di provare a prendere cautamente posizione.
Chi difende la necessità del silenzio invoca la delicatezza dei tempi in cui viviamo, la complessità dell’emergenza e la constatazione che esistono priorità più urgenti del teatro su cui riflettere. Il momento non è favorevole a fare nulla, se non a costruirsi uno spazio di raccoglimento che possa essere utile sia sul piano simbolico, per esempio per manifestare solidarietà verso chi soffre o muore negli ospedali / in casa, sia nella dimensione pratica, che si concretizza nell’invito al disimpegno e alla rinuncia. L’arte deve ora stare muta e lasciare che emerga qualcosa di diverso, di intimo.
I presenzialisti fondano invece la loro idea sul bisogno di trovare un second best allo spettacolo dal vivo e di pensare a un modo per continuare, sia pure inadeguatamente, a coltivare l’arte del teatro, ad entrare in un rapporto con un pubblico distante ma ancora desideroso di essere attraversato dalla poesia della scena, a proporre contenuti per riflettere e agire quando si sarà fuori dall’emergenza. Le ragioni invocate vanno dalla necessità di sentirsi vivi e meno isolati, attraverso quel che si ammette essere un surrogato temporaneo, all’argomentazione che alcune modalità risultano ancora efficaci anche da dietro lo schermo o in digitale, come la lettura drammatica a distanza.

Ciascuna di queste due posizioni in gioco ha i suoi punti di forza, ma anche forse degli aspetti di debolezza. L’invocazione del silenzio ha il suo limite nel fatto che, a rigore, nessun tempo e nessun luogo sarebbero forse in sé favorevoli per fare teatro, o qualunque altra cosa. Le questioni che si tenta di affrontare con qualsiasi attività artistico-intellettuale (poesia, scienza, teatro, sociologia, ecc.) sono sempre troppo più grandi di noi, mentre la violenza o il male o la morte erano ben più forti della vita e del bene già prima che irrompesse la crisi da Covid-19. Se si volesse tenere fermo il principio che si deve parlare quando si è pronti o all’altezza del problema e della situazione, in teoria nessun poeta dovrebbe scrivere mai un verso, nessun fisico formulare un’ipotesi su come funziona la natura, nessun musicista suonare uno strumento, nessun attore costruire un ritmo o una composizione sulla scena. Basta guardare ai cosiddetti capolavori, che sono colmi di imperfezioni e difetti. Non esiste opera dell’ingegno e della creatività umana che non riveli all’interno punti controversi, semplificazioni, inesattezze, oscurità. Inoltre, l’osservanza piena del silenzio rischia di trascurare i bisogni di quelle pochissime persone che hanno sete di riflessioni e di scenari che possano aiutarli a sostenere il presente, o a guardare subito con fiducia al futuro.

Ma se anche dovesse essere la necessità di un unico individuo, non si comprende perché andrebbe ignorato, pensando esclusivamente al pur giusto dolore dei molti o dei quasi tutti.
D’altro canto, il presenzialismo tende a eccedere nell’impazienza e nella fiducia. Per quanto alcuni strumenti riescano ad arrivare al loro pubblico e a trasmettere contenuti interessanti o profondi, un surrogato resta sempre un surrogato e non sostitutivo della concreta esperienza dal vivo. Le attività come la lettura drammatica a distanza che continuano a raggiungere le persone risultano meno incisive del normale. Esse comunicano con il pubblico solo a livello cognitivo ed emotivo, ma non riescono a costruire una relazione tra attori e spettatori che si basa più spesso sull’incontro tra corpi, su mezzi volatili come la creazione di un ritmo imprevisto, o la percezione di un respiro e di un gesto nato sulla scena per la prima volta. Il teatro in digitale obbliga all’amplificazione della forma, sottraendo spazio all’esperienza. Nello sforzo di mantenersi costantemente produttivi, infine, gli artisti propongono una quantità di stimoli che è maggiore del tempo e dell’attenzione che può riservare anche lo spettatore più appassionato. La mente affoga nel mare magnum dell’offerta.

Ci si trova così davanti a un’aporia. Non è possibile non tentare di continuare a nutrirsi di teatro, ma far teatro sembra essere ora impossibile, perché sono venuti meno i criteri e presupposti minimi, tra cui la già citata e decisiva dimensione della relazione tra attori/spettatori. Senza pretendere di dare un ricettario o una soluzione, vorrei allora proporre che è entro questa sottile linea di confine, in questo punto cieco in cui né il silenzio né il presenzialismo digitale si mostrano adeguati a reagire allo stallo, che occorre cercare una direzione costruttiva. A riempire il vuoto può forse intervenire una dialettica via di mezzo: lo studio e la ricerca sul teatro, sulla sua natura, sulla sua destinazione. Quest’attività evita la Scilla del silenzio o dell’attesa, cercando di approfittare del tempo sospeso per favorire il processo di conoscenza e apprendimento, ma anche la Cariddi del presenzialismo a ogni costo, che cerca di continuare pratiche a cui mancano le condizioni fondamentali.

Ci si è spesso lamentati di essere stritolati dalle dinamiche produttive e di non avere tempo per indagare quest’arte misteriosa, per problematizzare il proprio fare e comprenderne le implicazioni teoriche, etiche, psicologiche. E di misteri irrisolti il teatro è certo pieno. Non si ha ancora un’esatta idea del tempo e dello spazio che si attraversa sulla scena, di che natura sia il piacere che provano l’attore e lo spettatore coinvolti nel processo artistico, del genere di realtà a cui la bellezza evocata sulla scena farebbe accedere – ma l’elenco potrebbe continuare con altri innumerevoli temi complessi. Ora, questo fermo obbligato può essere usato per gettare un po’ di luce su queste ombre, magari anche per tentare la costruzione di un lessico estetico unitario e comune.

Non avrà forse più troppo senso allestire spettacoli in digitale, ma si potrà studiare chi siamo oggi e cosa potremmo essere domani, pulire il linguaggio, individuare e risolvere criticità concettuali, costruire poetiche, immaginare forme di vita e di pratiche alternative.
Ciò non significa che ogni modalità di incontro in digitale o proposta artistica da remoto dovrà esser boicottata. Molti artisti di livello si stanno muovendo con tatto e rispetto in direzione di una pratica performativa che cerchi di guardare in modo costruttivo al dopo, dunque non andrebbero censurati. La proposta è semmai pensare ad opere artistiche che tengano conto che, nel digitale, manca per forza l’aspetto della relazione e, di conseguenza, di interventi che non cercano di recuperare quel che è irrecuperabile, ma facciano appunto altro. Uno spettacolo che ad esempio problematizzi il proprio fare e ponga delle questioni teoretiche/metodologiche può essere un punto di partenza utile per una propedeutica al teatro del futuro.

Se l’ambiente teatrale non è solo un insieme di atomi che si aggregano per ottenere finanziamenti, o un gruppo di amici che intendono rendere più tollerabile questa esistenza sempre più dura con la condivisione di un passatempo condiviso, bensì donne e uomini che formano una comunità di ricerca di un’arte difficile, allora può forse essere il momento, più che del fare, della riflessione e del dibattito sul senso del proprio fare. Cose da apprendere e insegnare ce ne sono, manca solo il coraggio di fermarsi e provare finalmente ad attraversare l’ignoto insieme.


Abbiamo chiesto a Francesca Mazza un suo parere  sul tema del teatro ai tempi del #coronavirus e #covid_19: spettacoli e performance in streaming si o no?…Conviene stare in silenzio o far sentire la propria voce? Dopo le riflessioni di Roberto Latini, Michele Comite, Francesca Romano Lino e Maria Francesca Stancapiano, la riflessione prosegue con il contributo dell’attrice, e di seguito quella di Massimiliano Speziani, attore e regista.

Francesca Mazza WEST Fanny & Alexander

Francesca Mazza si è laureata in Lettere e Filosofia, corso in Discipline dell’arte, della musica, dello spettacolo. Diplomata alla Scuola di teatro di Bologna, diretta da Alessandra Galante Garrone. Il suo percorso artistico è iniziato nel 1982, debuttando con lo spettacolo Il bugiardo di Carlo Goldoni, regia di Alvaro Piccardi, nella compagnia di Ugo Pagliai e Paola Gassman. Dal 1983 al 1995 ha lavorato con Leo de Berardinis, all’interno del Teatro di Leo di cui è stata cofondatrice.

Francesca Mazza come vive questa situazione in cui tutta anche la cultura subisce il drammatico stato di crisi?

«In attesa. In ascolto. Mi chiedo anche cosa cambierà dopo che la pandemia sarà finita, quando potremo tornare a lavorare in teatro. Se qualcosa cambierà. Rai Radio 3 “Tutta la città ne parla” ascolta TUTTA-LA-CITTA-NE-PARLA   dove si è parlato della cultura colpita dalla crisi. Lo spunto veniva da due telefonate di ascoltatori e colleghi attori che ponevano questioni sulla drammatica situazione del Teatro. Purtroppo il teatro è stato “liquidato” un po’ frettolosamente e associato ai problemi dell’editoria e del sistema museale ma ogni ambito ha questioni e specificità diverse, non si tratta di fare a gara a chi sta peggio ma certamente ci sarebbe la necessità di mettere a fuoco differenze e possibili soluzioni.

Lo streaming, ad esempio, per me non è la soluzione; in questo periodo anch’io ho occupato parte del mio tempo libero guardando l’Amleto di Ostermeier o L’Orfeo di Monteverdi con la bellissima regia di Bob Wilson ma si tratta di edizioni pensate per le riprese televisive e realizzate con grandi mezzi. Non restituiscono certo l’emozione della visione dal vivo ma sono comunque occasioni preziose. Sono perplessa invece dall’improvvisazioni di certe performance che tanti colleghi si sono affrettati a postare sui social; sembrano parlare più di frustrazione o, peggio, di narcisismo che non fa bene al teatro. Perché non affidarci al silenzio? Perché non cogliere l’occasione per ripensarci?

Paradossalmente questa incertezza del futuro è una straordinaria occasione di vivere il presente, un presente che si offre come tempo di ricreazione. Non fermarsi non significa obbligatoriamente fare; scegliamo. Cosa è necessario fare per non far morire il teatro? Ecco, per me la prima cosa davvero necessaria è non far morire gli attori e quindi attivarsi in senso politico e sindacale. Questa emergenza non fa che evidenziare la fragilità economica e occupazionale della nostra categorie; la consueta fatica della maggior parte di noi diventa, in queste condizioni, vuoto, non solo futuro ma presente, povertà vera, senso di fallimento, emarginazione sociale. E c’è chi – non farò nomi- chiede agli attori di esibirsi gratuitamente online …Il ministro Franceschini ha detto qualcosa? Lo chiedo senza malizia: io non ho sentito niente ma forse mi è sfuggito nel bombardamento mediatico dentro il quale fatico ad orientarmi.

Aspetto queste parole e soprattutto i fatti che possano venire in soccorso e stabilire finalmente un riconoscimento dignitoso del nostro lavoro, durante e dopo l’epidemia. C’è un’Europa che tutela giustamente il proprio teatro, i propri artisti, che valorizza la Cultura in ogni sua espressione. Sono anni che chiediamo che siano presi ad esempio.
Non so cosa ci riserverà il futuro ma sento voci che più autorevolmente di me parlano di un mondo diverso: beh, qualunque diversità s’imponga so che il teatro ci sarà, e noi attori continueremo a farlo perché siamo necessari.

L’attrice (nel 2011  è stata l’ospite d’onore e la madrina  per l’inaugurazione di rumor(s)cena avvenuta allo Spazio Off diretto da Daniele Filosi), parla anche del suo impegno artistico pregresso del 2019 e contestualizza un problema: quello di dover recitare in molte produzioni che si susseguivano, con dei pro e dei contro.

Francesca Mazza inaugurazione di Rumor(s)cena Spazio OFF Trento 2011

«Da metà novembre e per tre settimane nel mese di dicembre dell’anno scorso, io ho lavorato in 5 spettacoli diversi. L’iper- produzione, secondo me, non ha senso quando ripenso ai tempi del passato in cui ci concedevano due mesi per provare uno spettacolo. Un tempo connaturato! Ora accade che un allestimento abbia una vita breve e poi sparisce. Ci vuole un tempo di ricreazione, una pausa per ricrearci e il teatro è vivo è lotta con noi! Il lavoro deve avvenire all’interno di noi. Dobbiamo ritrovare il senso del fare teatro e con quali responsabilità. Ristabilire delle richieste legittime, una giusta paga per andare in scena e impedire l’umiliazione nel doverlo fare in condizioni contrattuali e politiche non serie.


Massimiliano Speziani è un attore diplomato alla Civica Accademia “Paolo Grassi” di Milano oltre ad essere anche regista. Ha lavorato con maestri della scena quali Giancarlo Cobelli, Luca Ronconi, Massimo Castri, Federico Tiezzi, Carmelo Rifici in Nathan il saggio di Lessing, e nel Giulio Cesare di Shakespeare prodotto dal Piccolo Teatro di Milano. Antonio Latella lo ha scelto per recitare nel Servitore di due padroni e in Geppetto per il suo Pinocchio dove interpretava più ruoli “paterni”, da Geppetto a Mangiafuoco. Nel 2018 (vincitore del Premio Hystrio) regia di Declan Donnellan in La tragedia del vendicatore di Thomas Middleton (coproduzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione) 

Massimiliano Speziani, l’idea di comunicare il teatro anche con mezzi alternativi al palcoscenico,  la trova  d’accordo o è convinto di restare in attesa fino a quando non si potrà tornare a frequentare i teatri? 

«Lo spettacolo La tragedia del vendicatore di Thomas Middleton  per  la regia di Declan Donnellan, in cui recito, è stato interrotto a causa della pandemia dal Covid_19, subito dopo aver terminato le repliche a Londra. Ora sono a casa a Milano per le disposizioni del governo come tutti dobbiamo rispettare. Cosa penso del fare teatro in streaming oppure scegliere il silenzio? La mia impressione che ho è quella di approfittarne di questo tempo per studiare e riflettere. Perché non si faceva anche prima? Trovo una scelta interessante sapendo che il teatro è un’altra cosa rispetto alla divulgazione attraverso i media. La polemica che divide i fautori delle opposte posizioni non la capisco però.

Faccio un esempio: non è vero che le biblioteche sottraggano mercato alle librerie, cosi come il teatro amatoriale non sottrae pubblico al teatro professionista, anzi testimonia dell’amore delle persone per il teatro. E questo veniva detto da Silvio D’Amico in rapporto alla polemica negli anni ’50, sorta in seno agli attori nei confronti del dilettantismo, i quali si lamentavano della possibile sottrazione di pubblico alle loro platee.

Massimiliano Speziani

Da una parte emerge la paura di farlo in streaming e dall’altra si assiste ad una bulimia di proposte. Non ho problemi a dire che ho rivisto in questi giorni il Riccardo III del regista Thomas Ostermeier, ed è stato bellissimo, ma non è la stessa cosa vederlo a teatro. Ora dobbiamo pensare alle pratiche, alla documentazione, alla nostra categoria per infondere una linfa vitale per far circolare di più il nostro sentire», Massimiliano Speziani ha già spiegato con precisione la sua esperienza su Platealmente di Francesca Romano Lino: platealmente.it/oltre-il-silenzio «Non avevo deciso di fare nulla e per mia scelta non sono sui social, ma poi  mi è venuta l’idea di uscire sul balcone del mio appartamento per leggere, ad alta voce, poesie ed brani tratte da opere letterarie. Una sorta di teatro di condominio con i vicini dalle loro finestre che mi ascoltano. Un’esperienza strana, particolare e mi sono accorto di prendere tante papere, ma quello che importa è riscoprire la radice delle relazioni. Non è una cosa utile per salvare il teatro mentre dobbiamo salvare noi, attraverso il teatro. Un’intuizione nata dall’emergenza sanitaria in cui stiamo vivendo. Ripenso alla lezione di Antonio Neiwiller alle sue parole che rimangono più di tutte.

Mi chiedono gli stessi condomini di leggere autori che scelgono ogni giorno; l’arte di interpretare è anche quella di creare, l’arte di recitare è ri-creare in quel momento. L’interpretazione è un atto creativo, la materia di questo teatro e lo diceva già Artaud nel 1932, è cultura e deve avvicinarsi al concetto di vita; cultura e vita devono coincidere.

"Il teatro non deve essere “riproduzione”, ma deve offrire una realtà “più reale della realtà”, per mezzo di un atto creativo autonomo da realizzare con immediatezza, in tempo reale. Per Artaud, infatti, il teatro è un trionfo di forze oscure e deve generare negli spettatori le stesse conseguenze che aveva nell’antichità la peste, far emergere cioè nell’individuo un agire libero dai condizionamenti. Questa forma teatrale, che Artaud chiama teatro della crudeltà (…) è basata non sui temi ma sul linguaggio “concreto”, cioè destinato ai sensi e indipendente dalla parola [...], un linguaggio fisico del palcoscenico" (..)

(da Artaud “Il teatro della crudeltà” pubblicato su www.edatlas.it)

Come la poesia “Il seme” di Mario Luzi che ho letto ai miei vicini di casa. Dobbiamo lasciare morire quello che eravamo prima e l’attore deve essere un attore messaggero di un teatro dei mestieri, portavoce di parole degli altri. Ci siamo soffermati alla propria estetica e alla nostra carriera e ora dobbiamo dimostrare forza e responsabilità, dare il proprio contributo – spiega con toni pacati l’attore , la cui conversazione è basata su un proficuo scambio di idee – , che ci costringe a riflettere e collaborare, abbassare le nostre ambizioni. È necessario sostenere il sindacato e abbiamo bisogno di rivendicazioni contrattuali. Ci consideriamo noi stessi come gli ultimi, anche se poi diciamo il contrario.

Massimiliano Speziani (foto di Max Cardelli)

Nella relazione attore – pubblico deve essere presente la funzione di insegnamento, della didattica; è la sua natura mentre viene dopo l’intrattenimento. Dobbiamo ripensare ad una maggiore continuità nel nostro lavoro. Il regista Donellan lo dice sempre che uno spettacolo ha bisogno di almeno quattro anni di vita per maturare, mentre per il teatro italiano la mentalità è quella da Confindustria, di una cultura più produttiva possibile mentre dovrebbe essere il contrario. Più riflessiva. Esiste una confusione con la valenza del teatro invece sarebbe importante promuovere il teatro delle differenze. Questa situazione contingente non è andata a rompere qualcosa che prima funzionava. Era già incrinato. Ora è necessaria un’istanza che ci chiede di assumerci delle responsabilità e mettere a disposizione la nostra competenza.

Io con questa esperienza nuova che sto facendo (sul balcone di casa Speziani, ndr) nei quindici minuti di letture cerco di capire la natura di questa compresenza tra me e i gli abitanti del palazzo. Una piccola comunità in attesa tutti i giorni esce ed è molto interessante vedere le reazioni diverse tra di loro. A volte accade che non applaudano e restano in silenzio. Sei un tramite e uno stimolatore di una comunità molto ristretta. Il cambiamento è quello funzionale ad un accompagnamento insieme, ad un pensiero ma con l’aiuto di tutti»


I meccanismi che stanno alla base di logiche di modalità (consolidate)  del fare teatro, sia pubblico o privato , rivelano ancor più in questo presente come vi siano delle criticità mai risolte. La categoria professionale degli attori teatrali non ha sempre dimostrato una coesione tale da rivendicare uno status dotato di garanzie e diritti (oltre ai propri doveri) per lavorare e migliorare le condizioni contrattuali. Spesso si è percepita la situazione che ognuno volesse lavorare per conto suo, cercando il suo spazio accettando scritture, contratti, anche al ribasso. Da esterno e quindi non partecipe alle rivendicazioni ,  posso solo esprimere un mio parere, ma  la sensazione è quella di non aver colto una difesa  delle legittime posizioni tra produttori e artisti, direttori e attori, alla ricerca di contrattazione il più unita, coesa possibile. Un esempio : ma perché molti giovani artisti (all’inizio della loro futuribile ?) carriera si sono prestati ad andare in scena, a volte gratis pur di farsi conoscere o con pochi euro di compenso? Tutti quanti ora dobbiamo fare autocritica (a partire, anche, di noi critici (critichiamo gli altri più facilmente ) e cercare di individuare le falle , le distorsioni, i tanti nostri agiti professionali (qualche volta non etici e deontologici), e capire cosa in passato non funzionava. Il meccanismo ora non si è rotto mentre in passato funzionava sempre bene. Al contrario.  Ora tutti ne paghiamo le conseguenze (almeno in parte), artisti, teatri, critici e gli spettatori ai quali dobbiamo delle responsabilità. Una platea da ricostruire. Roberto Rinaldi 


foto di copertina di Alessandro Trigona (Per una drammaturgia italiana contemporanea)

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