Teatro, Teatrorecensione — 09/12/2011 at 11:22

Il Ciliegio non fiorisce più come la felicità di chi viveva in quel Giardino.

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Può una recensione entrare in profondità nelle scelte, che sono intercorse tra scelta drammaturgica del testo, studio e impostazione registica, finalizzata alla creazione di una messa in scena, fatta di ragionamenti, prove, partecipazione artistica e impegno attoriale, in poco più di due ore, il tempo necessario di assistere ad una delle repliche? E se si, può raccogliere elementi a sufficienza in grado di stilare un giudizio esaustivo su quanto visto? O forse ci si deve limitare a decifrare il più oggettivamente possibile, le intenzioni dal regista che si può paragonare ad un allenatore, il quale magari ha provato per settimane una gara condotta poi da atleti (qui attori ) che provano a gareggiare (qui recitare) dove il traguardo è rappresentato dal successo, non solo del pubblico, ma anche di chi per mestiere, ha la responsabilità di giudicare l’esito finale, in funzione del gradimento per quello che accade sul palcoscenico, dove gli attori sono sollecitati a dare il meglio di loro stessi.

L’occasione di dare seguito a questa prolusione, in funzione di chiarire quanto sopra esposto, ci viene offerta da un nuovo allestimento al Teatro Metastasio di Prato, del Giardino dei ciliegi di Anton Čechov, per la regia di Paolo Magelli direttore del Teatro Metastasio Stabile della Toscana. Una coproduzione con il Teatro Stabile della Sardegna. È la prima volta che incontriamo Magelli, conoscendo bene però il suo profilo registico, che lo ha visto protagonista sulla scena internazionale, e alla sua terza esperienza con questo testo, dopo averlo messo in scena nel 1994 a Zagabria e nel 1989 a Wuppertal, nello stesso teatro dove Pina Bausch diede vita a indimenticabili spettacoli di teatro -danza. Teatri diversi come è diverso – in questo caso – il Teatro Metastasio che non è solo il luogo “deputato agli spettacoli”, come si usava scrivere nel passato, bensì utilizzato come scenografia naturale, senza bisogno di artifici e scene costruite. La scelta è quella di “spogliare” il palcoscenico e renderlo “nudo” a vista, con tutta l’architettura e la scenotecnica di cui è dotato. Un’ambientazione che potrebbe raffigurare l’evoluzione verso l’era dell’industrializzazione scalzando l’obsoleta società aristocratica e rurale, che è poi lo sfondo storico sociale su cui Čechov crea il suo Giardino che verrà venduto per il debiti contratti, fallimento di una vita di sperperi e inganni reciproci.

 

 

Scelta registica che rievoca il teatro d’avanguardia di altri tempi molto affine a quello russo, non solo per come Magelli imposta lo spazio scenico, ma anche per dirige gli attori, ai quali chiede anche prestazioni fisiche eclettiche ed impegnative. Non ci sono riferimenti precisi al contesto in cui si viene a creare la vicenda scritta dal drammaturgo russo. La vastità dello spazio è utilizzato in forma di un contenitore, svincolato da necessità di ambientare le varie scene previste dalla storia. Ciò che accade è determinato dalla fisicità e dalla presenza scenica degli stessi attori. È un teatro di regia che punta quasi esclusivamente sull’uso di una corporeità (a tratti eccessiva) e della parola. Il resto è solo ed esclusivamente al servizio di un’idea registica molto complessa, affascinante nelle sue declinazioni, non sempre di facile comprensione, per quanto riguarda l’intero arco di tempo che racchiude tutta la vicenda e il succedersi degli eventi. L’impatto con la scena dove calano corde come grovigli sembrano dire che l’uomo viene a trovarsi imbrigliato dalle sue stesse azioni.

 

È l’artefice del suo destino. Magelli lascia molto spazio alla fantasia, capace di evocare un mondo in disfacimento, l’impero che sta per implodere. Quelle pareti così grigie e funeste, le prospettive delle vie di fuga del palcoscenico, i pertugi da dove entrano ed escono in continuazione i protagonisti, sono allusivi e rappresentano una società che non si ritrova più in se stessa. L’inquietudine regna sovrana nella casa dove cresce l’albero di ciliege, in realtà di visciole, e la felicità per una vita di agi e lusso sta per scomparire per sempre. Ultimi bagliori di un impero in decadenza.

 

 

 

L’insoddisfazione dell’uomo che sa di aver perso qualcosa che non si ripeterà più. L’incognita per un futuro che non ha certezze è il comune denominatore. Se è questa l’intenzione espressa dalla regia, Magelli convince per un’operazione di modernizzazione del testo stesso di Čechov, rendendolo attuale. Dove l’autore metteva il dito nella piaga sul disfacimento di una società russa alla fine dell’Ottocento, il quale sosteneva pubblicamente di aver scritto una farsa, in questo Giardino dei ciliegi, tutti sembrano uomini e donne in preda al panico per una crisi che coglie la nostra società contemporanea. Si diceva teatro gestuale, ipercinetico, mai statico. Pochi i dialoghi dove gli attori restano immobili. La vendita del terreno e della casa dove cresce il ciliegio è una metafora potente che la dice lunga su come viene gestito il potere di chi si arricchisce facilmente, a scapito di ogni principio etico e nel disprezzo di ogni valore. A rappresentarlo è il ruolo del commerciante Lopachin, interpretato da Luigi Tontoranelli, un usuraio che fa della sua volgarità, lo strumento per arricchirsi senza scrupoli. Lo spettacolo di Magelli sottrae al testo originale tutte le convenzioni che riproducano la veridicità naturalistica e opta per un linguaggio espressionista meta-teatrale, dove l’attore si fa carico di un’energia spesa fino allo spasimo totale. Non deve apparire se stesso, calato nel suo ruolo, quanto una pedina che viene mossa su una scacchiera virtuale, mossa dall’alto, da una forza propulsiva che meccanizza i movimenti. L’omaggio a Mejerchol’d e Stanislavskij è evidente anche se quasi superfluo doverlo sottolinearlo.

L’esito su quanto visto si divide sul risultato percepito tra primo e secondo tempo, dove quello che convince meno, per il risultato sul piano scenico, è il primo tempo, a differenza della seconda parte,  dove le felici intuizioni registiche si fondono più organicamente, dando vita a riuscite scene corali come la danza – gioco circense, all’inizio della prima scena che compone il secondo atto. Nella prima parte la destrutturazione e ricostruzione del testo (traduzione efficace di Magelli, versione drammaturgica per la messa in scena di Željka Udovičić), vi sono momenti dove sembra che l’azione così frenetica, crei disorientamento per l’eccessiva reiterazione dei movimenti di scena, quasi a creare effetti di estraniamento. Il secondo atto vira completamente e la coreografia che disegna lo spazio racchiuso da un fondale, fatto alzare a vista, per poi sprofondare al suolo, è uno dei  momenti più riusciti di questo originale  allestimento.  Acrobazie per testimoniare gli  ultimi scampoli di allegria e felicità e spensieratezza che stanno per svanire per sempre. Ciò che vuole intendere Magelli è che la vita è tutto un movimento incessante senza fine. L’isteria che circola nell’arrivare e fuggire, partire e tornare, forse è legata al tentativo di non farsi sopraffare. Una lettura dove emergono le pulsioni opposte di vita e di morte. La beata incoscienza che deve fare i conti con una triste realtà cinica che non fa sconti.

Non è tanto l’introspezione psicologica dei vari personaggi, come elemento portante della scelta registica, quanto la necessità di descrivere dinamiche agite con compulsione, che stanno alla base di tutta la storia. Valentina Banci è Ljubov’ Andreevna, la proprietaria che torna in patria da Parigi, una donna fragile incapace di gestire la sua vita, subendo dagli uomini ogni sorta di umiliazioni, fino a restare completamente nuda dove la sua reazione di rabbia è il segno della sconfitta come donna dibattuta tra reazioni forti e determinate e atteggiamenti puerili che sfociano su Trofimov, un eccellente Fabio Mascagni, lo studente intriso di ideali utopistici, incapace di vedere l’amore provato per lui da parte di Anja, una delle figlie di Ljubov’ che ha un fratello, un Mauro Malinverno, un uomo che si abbassa ad essere ridicolo, non sapendo dominare la sua vita in balia degli aventi, le figlie di Ljubov’ sono le ottime Sara Zenobbio e Elisa Cecilia Langone. Il Simeonov di Daniel Dwerryhouse dalla risata stridula, il contabile Epichodov è Corrado Gianetti, la cameriera Dunjasa Silvia Piovane e il giovane cameriere Jasa Francesco Borchi. Efficace anche la governante Sarlotta che Valeria Cocco ritaglia con molta fedeltà ai dettami registici. Firs, il vecchio cameriere è un bravissimo Paolo Meloni, rimasto solo nella desolazione della casa abbandonata da tutti, con il triste compito di chiudere la porta sul passato, sdraiarsi dentro quel fondale che giace a terra, dove i gabbiani dipinti sulla tela, sono volati via. Un giaciglio dove rifugiarsi e cercare una morte dolce. L’eco sinistro delle accette che stanno tagliando gli amati ciliegi, risuona nello spazio e si ode suonare un trillo come di un telefono che squilla a vuoto. Non risponderà mai più nessuno in quella casa. Sul fondo del palcoscenico tutti gli altri escono percorrendo un lungo corridoio che sembra non finire mai. Come la vita.

 

 

 

Il Giardino dei ciliegi di Anton Čechov,

Regia di Paolo Magelli

scene di Lorenzo Banci

costumi di Leo Kulaš

musiche di Arturo Annecchino

 

produzione Teatro Metastasio Stabile della Toscana/Teatro Stabile della Sardegna

 

Visto al Teatro Metastasio di Prato il 27 novembre 2011

 

 

 

In replica a Cagliari, Bologna, Venezia, Udine e Bolzano.

 

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