Hanno incontrato Gesù un mattino, per le vie di Ferrara

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RUMOR(S)CENA – PASSIO CHRISTI – CINEMA – TEATRO – Un tramestio di passi, sussurri inudibili. Dalle fessure dell’iposcenio, uno sguardo e un orecchio smarriti, quasi impotenti, colgono stridii di seghe e colpi di martello, un aspro ritmo che si unisce al primo duetto dello Stabat Mater di Pergolesi. Finché un macchinista di scena, fanciullescamente, si rivolge al collega dicendo: «Adesso faremo un gioco». Improvviso ricordo del Centiloquio del Pucci («or udirai bel gioco»)? Non importa. Fra pochi istanti, il “gioco sacro” comincerà per loro e, col loro aiuto e merito, anche per noi.

Passio Christi regia di Michele Placido fotografia di Andrea Baldrati

Trasmesso in anteprima lo scorso venerdì 2 aprile sul canale YouTube del Teatro Comunale “Claudio Abbado” di Ferrara (e visionabile fino al 12 aprile), Passio Christi si offre come un dono, il terragno “cantare” (inteso come forma poetico-musicale) di un uomo retto, generoso nella sua vulnerabilità. Prima ancora che a Luzi, Rame o Fo, il lungometraggio di Michele Placido ci riporta alle sacre rappresentazioni del XV sec., esplorate da Alessandro D’Ancona nel primo tomo del pionieristico Origini del teatro italiano (1877). Ma v’è di più. Scorrendo le immagini, nello spettatore si fa sempre più forte l’impressione che l’attore e regista pugliese, classe ’46, abbia voluto, in qualche modo, ripercorrere e ricapitolare il suo stesso cammino artistico, punteggiando la messa in scena con tratti caratteristici dei maestri che lo guidarono nel corso degli anni, facendolo maturare, di incontro in incontro, pure attraverso l’ascolto di acute voci letterarie.

Passio Christi il Cristo Vito Lopriore foto Marco-Caselli Nirmal

Da Ignazio Silone (Fontamara) giunge la necessità d’un ritorno ad un cristianesimo primitivo, “non catechistico ed escatologico, ma più pauperistico e francescano, che ecclesiale e temporale, oscillante tra ortodossia ed eresia” (Aliberti, ’90); di Beppe Ferrara (Giovanni Falcone) spuntano, invece, schegge della tempra irruente, della voglia di incutere terrore al pubblico, perché nulla (dispotismo, congiura, imbarbarimento, delitto) lo suscita più ormai, “mitragliandolo” letteralmente con fulminei, strazianti squarci del passato e del presente (la deportazione degli ebrei ferraresi a Fossoli, l’eccidio di Castello Estense, gli orfani di Hiroshima, l’assassinio di Guevara in Bolivia, il ritrovamento del corpo di Pasolini all’idroscalo di Ostia, l’operazione “Piombo fuso” che vide l’esercito israeliano bombardare e invadere la Striscia di Gaza, le proteste contro la polizia a Minneapolis); la pudicizia e la sensibilità nel cogliere il magico (quando non proprio il divino) nel quotidiano, il soprannaturale dal naturale, l’eterno nel labile ben si riconducono a Maurizio Zaccaro (La missione) e al lizzanese Pasquale Pozzessere (Padre e figlio) mentre il Cristo, intirizzito e vaneggiante, di Vito Lopriore (assai simile, per occhi e fisicità, al Joaquín Phoenix di Maria Maddalena), che vaga per la città deserta, in un’alba livida, non può non rammentarci Marco Bellocchio, per il quale Placido recitò in più occasioni e di cui omaggia, nel caso in esame, l’epilogo di Buongiorno, notte (2003) ossia la fuga di Aldo Moro e la sua vittoria sulla morte che, purtroppo, si compiranno soltanto nella sfera del sogno.

Vito Lopriore Passio Christi Foto di Sara Gautier Gazzotti

Già, il Sogno… il Sogno, il Meraviglioso, non scordiamolo, innervano l’arte scenica; sogno che si avvera nello studio, nell’allestimento, nell’immedesimazione, nel far “giocare” gli attori e far sì che, tornando bambini per qualche ora, “giochino” fra loro, allietando la sala e allietandosi l’un l’altro, aldilà della tragicità dei temi rievocati. «Un sogno senza realtà ha per me altrettanto poca importanza quanto una realtà senza sogni. E il teatro è fatto davvero solo di sogni realizzati» ripeteva spesso Max Reinhardt: alla sua maniera, Placido gli fa eco dacché la opera in oggetto vuole, infine, essere questo, sopra ogni cosa: la celebrazione della Via Crucis e della Resurrezione come “devoto” pretesto per dichiarare il proprio amore e la propria fede nello spettacolo, sia esso il “ruggito” del cerone o il ronzio della cinepresa, pregando che torni presto a sedurre, a “plasmare mondi”, rischiarando il nebuloso panorama che tutt’ora ci soffoca (suggerito esclusivamente dalla presenza delle mascherine sanitarie) e nel quale «distrarre, divertire» parrebbero gli unici verbi degni d’uso. In ciò risiede la qualità basilare di Passio Christi, la sua più intima ragion d’essere che ne farà forse, un domani, un sincero documento dell’ultimo, critico biennio.

Moni Ovadia Sara Alzetta Passio Christi Foto di Sara Gautier Gazzotti

La rilettura che si dà degli avvenimenti evangelici suona, all’opposto, meno incisiva. Non si discutono l’onestà intellettuale dell’operazione, l’abbandono emotivo degli interpreti (della triestina Sara Alzetta, su tutti), né la cura e il coraggio di aver dato forma ad un progetto del genere in appena sei giorni… Il dubbio riguarda, piuttosto, l’aver assunto, per l’ennesima volta, Il Vangelo secondo Matteo (le parole di Moni Ovadia sono lì a suggerirlo) quale modello per introdurre nel racconto della Passione un sapore di schiettezza “popolare”; un ardore, un’animazione contrastanti “l’immobilità” della tradizionale liturgia pasquale.

Moni Ovadia foto di Marco Caselli Nirmal

Ebbene, quella di Pasolini (riferendoci tanto al Vangelo… quanto a La ricotta) fu e rimane certo una concezione di ampio respiro, nondimeno il senso della Croce non si riduce né può ridursi al pensiero, alle scelte estetiche ed espressive del “poeta corsaro”. Pur rischiando di essere fraintesi, o sembrare arroganti, crediamo sia oggi giunto il momento di “oltrepassare” Pasolini pur tenendone sempre a mente la lezione. C’è chi lo ha fatto e l’ha precorsa, perfino. Si pensi al bellissimo Colui che deve morire(‘57) di Dassin dove gli abitanti di un villaggio montano, nella Grecia del 1921, davano rifugio ai superstiti di un massacro perpetrato dall’esercito turco sicché, a poco a poco, i ruoli dei personaggi e i dissidi sorti, nel frattempo, tra loro finivano per riflettere sempre più quelli della tragedia biblica, rappresentata ogni sette anni per le aride, sassose viuzze del borgo; oppure al canadese Arcand e al suo Jésus de Montréal (’89) nel quale un attore della scena «off-Broadway» a tal punto si identificava nel Redentore da lasciare il set e far proseliti.


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Celui qui doit mourir (‘57). Crediti: DA.MA. Prod. (Roma), Seven films (Atene).

Negli anni 2005-2012 uscirono, ad esempio, La passione di Giosuè l’ebreo di Scimeca, imperniato sull’espulsione di ebrei e musulmani dalla Spagna, nel 1492, per editto della regina Isabella; un volto e una vita di Gesù raramente così “urtanti” sullo schermo per umana veritàdistinsero, poi, Su Re del nuorese Columbu; diversamente in Bruegel – Il mulino e la croce del polacco Majewski si sovrapposero, non senza ombre o azzardi, la Madonna e un’anziana fattoressa (Charlotte Rampling) nelle cui braccia riposava il corpo maciullato del figlio, calvinista ribelle nelle Fiandre del 1566.



Leonardo Cesare Abude in La passione di Giosué l’Ebreo (2005). Crediti: Arbash film (Aliminusa, PA), As Sanat (Fatih, IST).


Pietrina Mennea, Fiorenzu Mattu in Su Re (2012). Crediti: Luches film (Cagliari), Sacher film (RM).

Ultimo, ma non per rilevanza, fu Il villaggio di cartone di Olmi, probabilmente il film più vicino a Passio Christi per ispirazione morale e soluzioni visive. Lo provano la fugace apparizione di un giovane africano – esule di un paese in subbuglio, il quale, dal sottopalco, assiste muto ad una sorta di cerimonia “lontana”, scorgendo, però, nel suo svolgersi anche qualcosa di sé – nonché lo sgomento, l’imbarazzo del Cristo Risorto innanzi al Suo “simulacro” crocefisso, sovrastante l’altar maggiore. Il messaggio non lascia dubbi: è troppo facile, ambiguo, affermare la virtù del simbolo; perché sia valido esso deve rinviare alla realtà “di carne”; inginocchiamoci non al cospetto di un simulacro di legno o gesso bensì ai piedi di coloro i quali non hanno conosciuto che tormento e umiliazione, non santi ma semplici uomini, talvolta abietti nell’animo quanto nell’aspetto, che pagano e continuano a pagare in nostra vece. Un monito, questo, sentito e genuino… ma, per l’appunto, già udito prima.



Il villaggio di cartone (2011). Crediti: Cinemaundici (MI-RM), Alcine Terran (TYO)


 Bruegel, le moulin et la croix (2011). Crediti: L. Majewski (Oficjalny profil Lecha Majewskiego), Dulac Distrib. (Paris).

L’aspirazione di Placido ad una Passione “nuova”, sconcertante, che dia voce e al contempo rechi su di sé i sanguinosi segni del “secolo breve” e delle prime due decadi del Duemila finisce, dunque, per ripiegarsi, ancorché decorosamente, su quelle già narrate. Senza contare che, dopo L’ultima tentazione (‘88) di Scorsese, era ben difficile aggiungere nuove suggestioni drammaturgiche sulla doppia essenza del Cristo, sull’intima lotta fra umano e sovrumano.

Michele Placido foto di Marco Caselli Nirmal

Conviene, infine, ammettere che l’immobilità, la parvenza di inanimato dell’odierna liturgia, scorte da Moni Ovadia, risultano, ahinoi, spesso attendibili. Le cause non sono, tuttavia, da attribuirsi, checché se ne dica, all’imborghesimento quando non addirittura ad un’alterazione di gusto “arianista” dell’iconografia e narrativa cristiane (fenomeni che, indirettamente, Giuseppe De Lutiis stigmatizzò, quasi cinquant’anni fa, nell’ispido libro-inchiesta L’industria del santino). Piuttosto, e qui risiede la nostra divergenza, a quell’eccessivo “abbassamento popolaresco” che, da veritiera, necessaria rottura, è passato ad essere oggigiorno la razionale norma. Come spiegò il compianto Philippe Daverio al Festival Biblico di Vicenza (Tempio di Santa Corona, 31 maggio 2014), tale processo riassume una gran parte del pensiero sociale che la Chiesa tentò di sposare dalla fine del XIX sec. in avanti ossia «[…] per coinvolgere tutti non è corretto schiacciare la parte più umile della società con il fasto, la solennità che possono piacere ed essere compresi unicamente dalla parte più alta». Errore ideologico tremendo, che ha portato, non dall’oggi al domani ma per continui, piccoli passi, all’immiserimento di un meccanismo, di tipo estetico, determinante nel linguaggio ecclesiale e che è ancora una delle principali cause di disaffezione della gente. L’enfasi, la “distanza” della cerimonia non sono necessariamente retorica barocca o, peggio, spie d’indole codina. Al contrario, potrebbero rivelarsi, se pienamente partecipate, quanto di più affine alla vera natura del Sacro come la definì (il suo nome, a ragione, ritorna) lo stesso Pasolini cioè «totale e mitica», affatto realistica o razionale (*).

Vito Lopriore foto di Andrea Baldrati

Passio Christi, va detto, non è estraneo a questa “inattuale” ieraticità, restituita agli occhi dello spettatore nei concisi, memorabili episodi aventi al centro Daniela Scarlatti. Con misura, l’attrice meranese dà l’illusione di arrestare il tempo, “donandosi” come Maria, madre anzitutto dell’Uomo. Il trentino da lei pronunciato non è dotto “trucco”, ingenua supponenza del verseggiatore dialettale, bensì segno di una commozione discreta, composta; tratto di saggezza infusa, di quel cristianesimo “del cuore” che i nonni, possedendo al massimo la licenza elementare, ci hanno trasmesso fin da piccoli, quando li accompagnavamo alla messa vespertina. Se Michele Placido avesse concesso all’interprete maggior spazio avrebbe firmato un’opera ancor più franca e autenticamente dolente di quanto già non sia.

Daniela Scarlatti Foto di Andrea Baldrati
Michele Placido foto di Andrea Baldrati

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(*) Sull’argomento, si legga Pasolini, la televisione e il sacro in Canadè A., (a cura di), Corpus Pasolini, L. Pellegrini ed., CS 2008, pg. 193 e sgg. Inoltre, per un ulteriore approfondimento, La santità eretica, Cristo allo specchio e L’oltraggio della scena in Rimini S., La ferita e l’assenza. Performance del sacrificio nella drammaturgia di Pasolini, Bonanno, CT-RM 2006.

PASSIO CHRISTI – Teatro Comunale di Ferrara – YouTube

Testi di

Mario Luzi, Dario Fo e Franca Rame

Salmi Biblici a cura di Moni Ovadia da un’idea di Michele Placido

interpreti

Sara Alzetta, Moni Ovadia, Michele Placido, Daniela Scarlatti
e nel ruolo di Cristo, Vito Lopriore

Coro dell’Accademia dello Spirito Santo

direttore Francesco Pinamonti

Orchestra Città di Ferrara

Konzertmeister Antonio Aiello

Una creazione video di Michele Placido, Toni Trupia

partner tecnico Civetta Movie

Un ringraziamento particolare alla Fondazione Fo Rame per la concessione all’uso del brano Maria alla croce di Dario Fo e Franca Rame

Si ringrazia la Scuola d’arte cinematografica Florestano Vancini.

Un ringraziamento inoltre va all’Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio e alla Comunità ebraica di Ferrara, che hanno reso possibili alcune scene mettendo a disposizione la Chiesa di San Giuliano e il Cimitero Ebraico di Ferrara

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