Teatro, Teatrorecensione — 07/03/2014 at 18:28

Invidia: sentimento umano per eccellenza

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MILANO –Fu il sangue mio d’invidia sì riarso che se veduto avesse uomo farsi lieto, visto m’avresti di livore sparso” (Dante Alighieri, Purgatorio, XIV, vv. 82-84).

 Non desiderare alcuna cosa appartenga al tuo prossimo” (Es 20, 17).

L’invidia: uno dei sette vizi capitali, uno dei dieci comandamenti. C’è uno squallore al quale non si possono mettere argini e confini, un putrido borghese di tapparelle tirate giù e muri troppo sottili, di palazzi troppo alti, del troppo cemento che è fuori ma che per osmosi passa e lascia tracce anche su chi vi abita. Ci sono spaccati di vita sordidi e meschini, foschi e miseri, ammantati da un velo di quotidianità che fa perdere i punti di riferimento e colora il fango di noia e di morbosità. C’è una latente lascivia che permea i rapporti di vicinato, gli occhi controllori e le domande oblique, le sopracciglia tirate su, tutto il menefreghismo profuso in dosi generose. E ci sono generazioni che hanno imparato a farsi del male, psicologico prima che fisico.

Se un tempo esisteva Medea che uccideva i figli come estremo affronto a Giasone, se fino a poco tempo fa la mossa più consueta delle cronache di famiglie spezzate era la dinamica che vedeva l’ex compagno uccidere la prole come segno indelebile dell’odio verso quella che era sua moglie, adesso, e i resoconti dei giornali locali ce ne danno ampia testimonianza, è la donna che, arrivata alla soglia dei fatidici trentacinque-quaranta, insoddisfatta ed irrealizzata, mette in mostra la propria mercanzia per ritornare sul mercato della femminilità e riscoprire la piacevolezza dell’innamoramento, del corteggiamento, dell’essere ricercata e richiesta.

In questo caso di cronaca ripreso con lucidità e poesia in “Invidiatemi come io ho invidiato voi”, titolo profetico e poetico, da Tindaro Granata, cresciuto esponenzialmente sia nella scrittura dai tempi, comunque recenti, del suo primo autobiografico “Antropolaroid”, sia con una regia raffinata che colpisce, c’è tutto il marcio dei nostri giorni: i segreti non detti che fanno massa e bolo come palla di peli che si contorce nello stomaco del felino, l’inadeguatezza di vivere responsabilmente il tempo della crescita e dell’adultità, i rapporti personali tra conoscenti che altro non sono che lame e fendenti, curiosità morbosa nel caso migliore, giudizi universali e gossip bieco negli altri.

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Una donna, la tenera efficace amara schietta lancinante Mariangela Granelli (leggera somiglianza con Madonna, vista con costrutto nell’ultima regia di Carmelo Rifici,Visita al padre”), ancora giovane ed attraente, con un marito debole al proprio fianco (lo stesso Granata, sgrammaticato, indolente, anaffettivo, braccia lungo i fianchi ad attendere ordini dalla sua mantide religiosa), si è trovata un amante (Paolo Li Volsi che ben dosa carezzevolezza e cattiveria), scapolo con disponibilità economica in tasca, sorridente a differenza del compagno, premuroso e carico di attenzioni.

Di mezzo però c’è una figlia che può essere usata come merce di scambio. Una bambina che è zavorra ed ostacolo al nuovo amore ed alla nuova vita prospettata dalla madre con l’aitante neo eletto principe azzurro, ma orco di professione, una bambina che però, per tenerezza e voglia di famiglia, può essere il gancio ed il tramite per attirare nella trappola e nella tela del ragno. Una bambina boccone prelibato, baco attaccato all’amo per la bocca del barracuda. Il nuovo amante che si dichiara più interessato alla figlia che alla madre, la mamma che entra in competizione con la piccola per ottenere lo sguardo del nuovo eroe maschile.

Per sé Tindaro Granata  si è ritagliato un ruolo marginale, ben costruito e congegnato, quello dell’anello debole, quello che vede e non provvede, marito ignavo senza nerbo che pende dalle labbra della moglie mantide religiosa, la Granelli ora toccata dall’euforia e dall’entusiasmo, adesso dallo sconforto e dalla tragicità, a delineare le tinte chiaro accecanti di questo ritorno ad un’adolescenza non vissuta, e nere come il baratro viscerale vortice infernale nel quale è caduta come un bambino in un pozzo profondo. Attorno uno stuolo di personaggi (la nonna della piccola, Bianca Pesce, alla vetta di questa società al femminile, grave ed atroce con la normalità del cecchino che sceglie il male minore), invidiosi a loro volta, che si guardano le spalle, che puntano il dito, che giudicano, che sentenziano, che consigliano. Come in un’unica arringa, i testimoni prendono la parola davanti a quella giuria popolare che è la platea con inserti di partecipazione diretta del pubblico ed interazioni di quel “qui ed ora” che rende il tutto lontano e colloquiale, vicino e sentimentale, carico di finzione come soap televisiva e pieno della vita sanguigna del reale.

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Dopo una resistenza iniziale, ci si lascia attrarre in questo magma denso di colpe e condanne, di denunce e proclami, salvando adesso l’uno ora l’altro, infine mettendo tutti alla sbarra degli imputati come banda di carnefici, non tanto per il gesto che hanno commesso o che hanno lasciato commettere sotto il loro naso, ma deprecabili per la scialba e squallida conduzione delle loro esistenze ad ammazzare il tempo, a lasciarselo scorrere addosso con il minor numero di perdite.

Unica vittima è quella che non c’è, quella che non ha mai avuto parola, che non ha mai avuto possibilità di difesa. Tutti cercano di fuggire da loro stessi in un gioco di specchi e pettegolezzi, voci e maldicenze, affossamenti altrui per esaltare se stessi, virtù e moralità. Uno desolante gioco al massacro, una tarantella-confessione di vite piccole di quella provincia fatta di catrame e alberi dal fusto troppo sottile per fare ombra alle necessità della vita, di bisogni primari mancanti surrogati da misere materialità indotte, una parca tavola imbandita colata dei colori della pubblicità di prodotti che mai riuscirai a permetterti.

La regia aziona il flashback, come un rewind di registrazione, e a sprazzi, come pezzi di puzzle, che trovano finalmente la loro collocazione e consacrazione, si figura il quadro straziante e abominevole, perfido e lucido, miserabile e di una razionalità disarmante. L’elastico è la figlioletta tirata come coperta troppo corta per le voglie dell’uno, per le necessità degli altri. Vittima sacrificale, agnello da altare immolato per restituire la libertà all’intera comunità, a quella tribù-società atavica, arcaica e matriarcale, che abbisognava del proprio Cristo, ognuno per sentirsi ancora qualcosa di utile. C’è sempre un impiccio alla felicità, un ostacolo da eliminare, uno scoglio al quale addossare la causa della propria infelicità. Che la lamentela paga di più, ed è meno faticosa, di un esame di coscienza. In fondo “Dove regna l’invidia non può vivere la virtù”, ci diceva Cervantes in “Don Chisciotte”, al quale rispondeva Alberto Moravia: “L’invidia è come una palla di gomma che più la spingi sotto e più ti torna a galla”. Dilaniandoti.

Invidiatemi come io ho invidiato voi”, scritto e diretto da Tindaro Granata. Con: Tindaro Granata, Mariangela Granelli, Paolo Li Volsi, Bianca Pesce, Francesca Porrini, Giorgia Senesi. Voce fuori campo: Elena Arcuri. Scene e Costumi: Eliana Borgonovo. Disegno Luci: Matteo Crespi. Elaborazioni musicali: Marcello Gori. Produzione: BIBOteatro, Proxima Res. Visto al Elfo Teatro Puccini, Milano, il 23 febbraio 2014. 

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