Barcellona in uno scatto. Un mosaico di identità al Teatro della Rambla.

di
Share

RUMOR(S)CENA – BARCELLONA – Immaginate una foto di gruppo. Immaginate un rituale, una festa di famiglia dove ci si ritrova, tutti, col vestito migliore. Immaginate l’attimo, unico e immortale, dove un corpo si offre ad un occhio estraneo, giudicante o benevolo, in un accordo non scritto. Immaginate che il gruppo conti 2200 persone, sedute in un teatro, differenti per genere, generazione, orientamento sessuale, origine, fede e idioma. Il più piccolo si dice abbia pochi mesi e il più vecchio 105 anni. Non male per una comunità con l’ambizione di tenere dentro tutti. Questa l’essenza di “Me,We”, una performance mai vista prima d’ora, andata in scena domenica 26 giugno al Gran Teatro del Liceu di Barcellona.

Arrivano dal mattino (lo scatto è previsto per le 11,40), vengono da Poble Nou, Gracia, el Barri Gotic, Corts, Born, la Segrera, anche da fuori, los suburbios, “perché sì, io in quella foto ci voglio essere, perché io sono Barcellona”. L’essenza della capitale catalana. Qualcuno (non tanti in verità) si presenta con l’abito tradizionale, un copricapo, un colore riconoscibile, una bandierina appuntata sul petto. Prendono posto in poltrona in veste di spettatori e in un momento, inaspettatamente, sperimentano l’effetto di un rovesciamento di ruolo. Succede quando si alza il sipario e appare uno specchio grande tanto quanto il palcoscenico. Ogni faccia si ritrova riflessa adesso nelle vesti di protagonista e un’ energia speciale si produce, un sentimento di appartenenza che sembra scoccato dalla bacchetta di un mago. Siamo tanti. Siamo diversi, eppure siamo uno.

Poi che succede? Il pannello riflettente si alza e scompare e arriva lo scatto fotografico. L’artista, il grande Jordi Bernadò, seduto su una piccola gru, la testa coperta da un telo scuro alla maniera antica, fa il suo mestiere, scatta e cattura l’essenza di una città in una fotografia collettiva. E’ lui, a questo punto dell’azione scenica, l’unico spettatore. (Ehi! Potete anche respirare!).

Victor Garcìa de Gomar direttore de El Gran Teatro del Liceo, il cui soggetto principale è senza dubbio la lirica, ha fatto di questo luogo un centro di incontro di arti in cui confluiscono discipline le più diverse. “Ognuno di voi rappresenta una comunità – dice Gomar in apertura – Questa cerimonia obbedisce a una realtà statistica di ciò che è Barcellona oggi. Me We è poesia, può essere considerata la più breve poesia al mondo. L’idea del Nosotros è la rinuncia del Yo esclusivo. Come comunità siamo sicuramente più forti”.

Particolare di non poco effetto è che Bernadò, che si definisce un ottimista per la fiducia nel futuro dell’umanità nonostante l’epoca inquieta (“un ottimista informato”) è accompagnato da un cielo stellato, scenografia allestita per La Flauta Magica in programmazione al Liceu fino a fine settembre. Insomma un crescendo emotivo che tocca l’apice quando si alzano le voci del Cor de Cambra del Palau de la Musica Catalana che offrono due brani, diretti da Xavi Puig.

Le persone che riempiono quasi completamente il forum operistico sono volontari, appartengono a 58 nazionalità, parlano 25 lingue. “Li guardo e penso che siamo più simili di quanto immaginiamo – ci dice Barnadò (56 anni, un’ aria entusiasta da ragazzo) che mi invita nel suo studio di carrer Domènech di Gracia a brindare con acqua minerale – Troviamo legami, esperienze comuni. Sono certo che siamo più le cose che ci accomunano di quelle che ci separano”.

Per realizzare “Me We“, l’artista ha lavorato nell’ultimo anno a comporre una cartografia umana della città, in sintonia con consolati, scuole, università, associazioni culturali spagnole e straniere. “E’ una storia raccontata da molte voci, un canto corale che comincia ogni volta da capo, e cambia e cresce e si trasforma. Per questo ho scelto il Liceu, è un luogo simbolico, elitario e al tempo stesso popolare. Ospita i melomani della città e i rifugiati politici, la borghesia e i ragazzini delle scuole. Non sarebbe stato lo stesso in una piazza. Il direttore del teatro mi ha detto ok quando gli ho parlato del progetto, mi sono messo al lavoro per trovare i soldi. Collezionisti, artisti, intercettare anime sensibili e generose non è stato difficile, non hanno pensato ad un’operazione di marketing, nemmeno hanno preteso visibilità”.

E i politici? Chiediamo a Bernadò. Non hanno preteso la parola? Non hanno piantato una bandiera? “Si sono iscritti, hanno partecipato, come tutti. Certo anche la nostra sindaca era con noi, mi hanno detto, seduta in una poltrona del fondo”.

Utile ricordare che l’artista espone fino al 4 settembre alla sala ovale del MNAC (Museo Nazionale Arte Catalana) ID Project, una serie di 14 ritratti di altrettanti personaggi apparentemente estranei tra loro, autori, registi, scrittori, attivisti, accomunati solo dal dialogo con la macchina da presa e dalla risposta a un’unica domanda. “Ho dettato due condizioni, ho chiesto ad ognuno di loro: qual è il tuo posto nel mondo? Perchè lì dovevamo andare per scattare la foto che li rappresenta. Tutti abbiamo un posto nel mondo, un luogo da amare, desiderare, in cui tornare. Seconda condizioni essere ripresi di spalle”. I ritratti sono, nientemeno, di Stephen Hawking (il suo ultimo), Ferran Adrià, Chimamanda Ngozi Adichie, Woody Allen, Muhammad Yunus, lo scienziato Steven Pinker, il giudice americano Reed Brody, tanto per citarne alcuni. Una mappa eterogenea e frammentata, in cui l’artista esplora il tema dell’identità e insieme dell’orizzonte valoriale che ci tocca difendere in quanto umani: l’ambiente e il clima, la giustizia sociale, i diritti umani, la nostra stessa sopravvivenza in un mondo accettabile.

Visto il 26 giugno al Gran Teatro del Liceu di Barcellona

Share

Comments are closed.