Chi fa teatro, Interviste — 04/07/2021 at 10:33

Il debutto di “Vite di Ginius”, monologo scritto e interpretato da Max Mazzotta.

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RUMOR(S)CENA – NAPOLI – Venerdì 2 luglio, nell’ambito del Campania Teatro Festival diretto da Ruggero Cappuccio e organizzato dalla Fondazione Campania dei Festival, ha debuttato in prima assoluta a Napoli, nel Giardino Paesaggistico di Porta Miano (ingresso da Porta Miano) a Capodimonte, Max Mazzotta, autore, regista e interprete di “Vite di Ginius”, uno spettacolo della compagnia cosentina Libero Teatro. Max Mazzotta, fondatore e direttore artistico di Libero Teatro, da vent’anni attivo in Calabria con progetti nati in sinergia con l’Università della Calabria, per cui cura laboratori teatrali in collaborazione con il dipartimento di studi umanistici dell’ateneo, è allievo di un mostro sacro del teatro come Giorgio Strehler, con il quale ha lavorato all’interno delle sue ultime produzioni, ma anche volto noto per aver interpretato il ruolo di Enrico Fiabeschi nel cult cinematografico “Paz!” (2002). “Vite di Ginius” è il suo primo monologo scritto, diretto e interpretato per Libero Teatro.

Max Mazzotta crediti foto Guglielmo Verrienti AgCubo

Stiamo assistendo da spettatori attivi a una nuova era che ci vede rialzarci dopo una catastrofe. Abbiamo assistito alle molteplici variabili della creatività messa in campo su mezzi cibernetici, pur che si parlasse di teatro, a volte perdendo il senso stesso del Teatro. Cosa pensate del “prima” poi “durante” e cosa vi aspettate da questo “oggi”?

È chiaro che si può dire che c’è un prima, un durante e un dopo. Il durante è stato un periodo di riflessione per noi perché magari possiamo soffermarci su cosa non ci convinceva ieri nel passato e oggi azzardare a modalità nuove. Spero che ci sia più coraggio e più possibilità in un mondo diverso in cui tutti siamo cambiati, attori e spettatori. Io sono ottimista perché confido nella reazione da parte di tutti al fine di scambiare un coraggio maggiore

“Vite di Ginius” è un monologo scritto e interpretato da Max Mazzotta in cui il protagonista muore in un tempo futuro rispetto al nostro e la sua anima viaggia. È un riferimento dantesco, in quanto vi è una sorta di barca di Caronte tramutata in navicella spaziale. Chi è Ginius?

Siamo noi, chiunque di noi può essere Ginius. Ho voluto raccontare la storia di un essere umano che si reincarna in quattro vite dal 1800, dunque un passato molto lontano da noi, a un tempo di mezzo che conosciamo maggiormente. C’è da dire che lo spettacolo si divide in due piani: il viaggio dell’anima, metafisico in un periodo molto futuro inventato che mi ha dato la possibilità di creare una poetica nuova, diversa. Il percorso che l’anima di Ginius fa nell’ade è una purificazione fino a diventare vibrazione, togliendosi tutte le parti materiche che ha e a questo punto deve fare un altro percorso che è il secondo piano: il ricordo, quello delle vite precedenti necessario per superare il suo circolo karmico a fine di poter far fronte a impedimenti della sua esistenza, dettati dalla vigliaccheria, la mancata osservazione di se stessi. Lo spettacolo non ha la presunzione di dare delle risposte, semmai vuole che lo spettatore si ponga la giusta domanda in una dimensione spazio-temporale più dilatata, quella del teatro, appunto. Voglio aprire una breccia nel cuore di chi guarda. Se ci pensiamo, oggi non c’è tempo per riflettere causa una frenesia e dopo anni non ci riconosciamo nei gesti compiuti o ricevuti perché non prestiamo attenzione. Ecco: questo deve essere un momento di stasi anche perché non siamo invincibili né immortali.

Ho preso in prestito Dante perché il linguaggio in versi mi ha aiutato molto sia nella costruzione che nel linguaggio: basti pensare che c’è un doppio binario di registri: uno in terzine dantesche, poi il canto associato a suoni e installazioni video per agevolare il fruitore a entrare meglio nello spettacolo.

Max Mazzotta crediti foto Guglielmo Verrienti AgCubo

Oltre all’incontro si parla anche di reincarnazioni, quattro, dell’anima di Ginius: perché proprio quattro?

Il numero quattro nasce per chiudere un cerchio. C’è anche da dire che ci sono degli equilibri che non sono sempre fissati, però nel momento in cui si mette in scena una qualsiasi cosa il teatro stesso dice dove si puoi arrivare, cosa basta e cosa no e, se si sa ascoltare, è lui stesso che dà le coordinate giuste.

Quattro anche perché è un escalation dei personaggi in cui il protagonista si reincarna. La prima vita ricordata è quella di Za’ Popa, anziana signora di un villaggio calabrese dell’800, la cui esistenza fu segnata in giovane età, quando per uno scherzo innocente subì la morte del suo amico Ninuzzu, ritrovandosi vigliacca spettatrice del tragico evento. La seconda reincarnazione è quella di Nanni, venditore di scarpe, nella Roma degli anni ‘60. A causa della sua codardia, lascia che Nina, la ragazzina di cui è innamorato, venga ammazzata dal fratello di lei. L’anima di Ginius viene trascinata sempre di più nel tragico, si perde nel dolore di un atto vile e senza amore, con la terza reincarnazione, ambientata ai giorni nostri: Gianni, fratello maggiore di Nino, è rinchiuso in un istituto per malati di mente in una città del nord Italia e a causa dell’odio, che entrambi nutrono l’uno verso l’altro, arriva ad uccidere il proprio fratello. Sono fatti di cronaca, di vita, vita vera, vita che può riproporsi. L’ultima vita ricordata è quella da cui Ginius si è appena separato all’inizio dello spettacolo. Siamo alla fine del secondo millennio, all’interno di un ipotetico e distopico futuro. Nessuna religione è ammessa, nessuna forma di misticismo e nessun dio a tutela dell’essere umano. Ginius lavora per il governo a capo di un reparto militare. Sarà proprio in questa epoca votata alla razionalità che Ginius spezzerà il suo ciclo karmico immolandosi per salvare la vita di Nina, una sovversiva appena conosciuta e da lui stesso imprigionata. Un gesto sicuro e istintivo, quello di donare la sua vita per amore, grazie al quale la sua anima potrà finalmente riscattarsi. In un mondo del 2800 il protagonista è un militare sovversivo che crede ancora in una esistenza da salvare. Questo è un altro punto fondamentale dello spettacolo: il discernere la vita e l’esistenza. La prima ha un che di carnale con principio e fine; la seconda è immortale, sempre esisterà.

Max Mazzotta crediti foto Guglielmo Verrienti AgCubo

L’obiettivo di questo spettacolo?

Riflettere insieme e ricordare, esercitare la nostra anima al ricordo, per esempio di noi stessi nel passato per correggersi nel futuro. La reincarnazione è anche una metafora delle nostre mille vite vissute, da bambini alla vecchiaia, quest’ultima una conquista. Pensiamo a Pirandello, “uno nessuno e centomila”: aveva ragione perché ci sono centomila “io”, persone diverse che ci attraversano in una sola vita. Non dimentichiamo che il teatro è il luogo per eccellenza di osservazione. E qui, in questo spettacolo, c’è anche l’essenza riferita al Teatro, quella che nemmeno una pandemia può ammazzare.

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