Teatro, Teatrorecensione — 30/03/2012 at 17:54

Caino padre dell’umana contraddizione

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È la ribellione di Caino, quella andata in scena al Teatro Arena del Sole, per la regia di Cesare Ronconi. Nella messa in scena del Teatro Valdoca, infatti, il mitico fratricida delle origini si solleva prepotente dalla pagina biblica e rivendica un corpo reale attraverso il quale affermare la propria presenza viva e gridare il proprio tormento. Nato dalla penna poetica di Mariangela Gualtieri, Caino è collocato nella terra di mezzo che abita ogni animo umano, sulla soglia tra luce e ombra, in bilico tra bene e male, in un limbo in cui si fondono sublime e ripugnante, dolore e piacere, forza e debolezza. Il primo nato condensa in un solo corpo l’immagine della contraddizione che opprime ogni uomo. È creatore e distruttore insieme, assassino di un fratello e partoriente della prima città, delle arti, delle tecnologie, della vita.

«Io sono Caino. Non sono un antenato/ non abito un passato favoloso/ non sono la pagina di un libro/ io non sono il reietto/ il primo mal riuscito che s’accantona e si perde/ una manovra sbagliata della creazione/ io non sono una patologia malata./ Non sono la favola stantia/ di due fratelli nello scenario vuoto/ del principio. Io vivo adesso/ dentro ogni umano».

I versi della Gualtieri, protagonisti assoluti della pièce, sono incorniciati da una sequenza osmotica di Tableaux vivants animati da un coro di giovani interpreti che si alternano in duetti fisici, aggregazioni danzate, rituali abbozzati. In primo piano, incastrati nel lento flusso di immagini, le costruzioni plastiche di Raffaella Giordano e i numerosi interventi verbali delle tre figure protagoniste. Interventi chiusi in se stessi, monologhi solitari che testimoniano di una comunicazione interdetta, in cui, il graffio vocale di Caino, il sibilo malefico del Lucifero di Leonardo Delogu e gli squarci narrativi della Gualtieri, tutti amplificati da un microfono a vista, non si incrociano mai. Una moltitudine di solitudini che si raccoglie nel finale in un girotondo slegato che accomuna il dolore di ognuno. Solo in scena, per l’ultimissima immagine, Caino intona un canto straziante che sembra implorare al cielo pietà in un’estrema preghiera.

Una complessa partitura immersa in uno spazio surreale, una sorta di paesaggio pastorale ibrido dominato dall’alto da una testa enorme in cartapesta, segnato da un cervo, da fronde e cespugli, e ingombra di elementi artificiali, lampadine, barre luminose. Sullo sfondo tre strati sovrapposti di lunghi e oscillanti drappeggi rossi bianchi e neri assorbono e materializzano con discrezione le figure, rivelando, in controluce, le percussioni di Enrico Malatesta. Un musicista che, supportato dai suoni elettronici di Alice Berni, costruisce, dal vivo, un tappeto sonoro di grande effetto in cui ritmi ancestrali si fondono a suoni animali e rumori metallici. Lo spettacolo vive della bravura, soprattutto, di Danio Manfredini e di Raffaella Giordano.

E d’altronde i loro duetti silenziosi occupano la scena per molto tempo, essendo la messinscena scandita drammaturgicamente proprio dai numerosi tentativi di approccio da parte dell’angelo nei confronti di un Caino che, pur in procinto spesso di tenderle la mano, finisce puntualmente per rifiutare l’abbraccio. Straordinario Manfredini, in tunica nera, che si trascina sulla scena inciampando nei suoi stessi muscoli atrofizzati, negli arti rattrappiti. Il baricentro spostato in avanti tratteggia una linea curva sulla schiena di Caino, una gobba impercettibile che però squilibra l’intera figura rendendola deforme, sgraziata, claudicante. Le mani assassine, sempre staccate dal torace, sembrano corpi estranei, protesi ripudiate eppure onnipresenti. Caino abita un corpo costretto in un’enorme contrattura, un involucro di carne in cui si dimenano forze rivali potentissime. Un bozzolo ruvido che si apre, di tanto in tanto, a crepe dolorose, quando, scorticando la crosta, l’attore apre un passaggio a quelle forze, lasciandole fluire attraverso la voce grumosa e ruggente che gonfia di vita vera i versi scritti della Gualtieri.

La Giordano, invece, lavora incessantemente sui volumi. Avanza, volteggia, interseca corpi altrui, con movimenti lentissimi, accurati, osservati da lei stessa nello svolgersi, fatti e disfatti numerose volte. Il suo corpo pare argilla che continuamente si rimodella nello spazio, alla ricerca di un vuoto da riempire e di un pieno da svuotare. Sebbene sembri, in qualche raro momento, essere sul punto di lievitare letteralmente sulla scena, la danzatrice costruisce un angelo terreno, dalle ali rigide che non possono volare. Un essere alato che fa i conti con la forza di gravità. Una vera perla visiva, in questo senso, la scena della tentazione, in cui il corpo dell’angelo, cinto in un abbraccio da quello di Lucifero, si lascia vincere, cede, si scioglie, e poi si divincola con improvvisi scatti, cade al suolo, e rimane inerme, raggomitolato, mentre mani aggressive lo trascinano fuori.

Uno spettacolo che regala meravigliosi squarci visivi, dunque, alternati, però, a passaggi ermetici, impregnati di un simbolismo che rimanda a codici altri difficilmente interpretabili, da parte del pubblico, nello spazio di una messa in scena teatrale. Tesi nello sforzo di ricostruire la ragnatela dei segni che si offrono con forza, si perde, in qualche passaggio, la bellezza delle immagini e si avverte in forma più debole il senso di energia compressa che pervade l’intera pièce.

Visto al Teatro Arena del Sole di Bologna il 28 marzo 2012

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