Teatro, Teatrorecensione — 28/02/2014 at 00:06

“L’inquilino” del nostro tempo abita al Franco Parenti

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“L’inquilino” – di Fabio Banfo – corona la residenza teatrale di Silvia Giulia Mendola al Teatro Franco Parenti di Milano. Dopo “Relazioni pericolose”, nel luglio scorso, e “Marilyn Mon Amour” a novembre, resta solo ancora “Saccarina”. Questo testo – in scena fino al 2 marzo – ci viene presentato da un foglio di sala che cita: “Una commedia amara, cinica e disperata, specchio dei tempi in cui viviamo. I quattro personaggi sono alla deriva nei loro sogni più o meno impossibili.” 

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Il senso c’è ovviamente, ma poi c’è molto di più in questa drammaturgia contemporanea, quanto mai stratificata e sferzante, che, alla ferocia di battute e personaggi dalla verità quasi urticante – “La morte è una cosa tremenda…”, dice, con intento consolatorio, ad un certo punto, Luca: “La domenica è peggio.” gli risponde, tracheante, Emma fresca di lutto – sa contrapporre – bilanciando – chicche poetiche dalla grazia inaspettata – “Fingo […] – confessa in un suo monologo, Luca, parlando del proprio lavoro – …mentre la mia anima sbadiglia per tutta l’ampiezza del mio orizzonte umano.”. Sono questi, infatti, i personaggi: Luca – un Alberto Onofrietti che raggiunge apici di generosa bravura, specie nelle sequenze introspettive – è un trentenne irrisolto, in balia degli eventi e della sua precarietà, ma prima di tutto delle proprie indecisioni generazionali. Aveva trovato un inquilino,  morto durante il trasloco. Così ora si trova a doverne gestire la sorella Emma – una Silvia Giulia Mendola, che sembra non esser nata per nessun’altra ragione se non per recitare… -, venuta a riprenderne le cose. E lui lì, in bilico: fra la fascinazione per questa ragazza spregiudicata e fragile, volutamente anticonvenzionale – “Che fai nella vita?”, le chiede: “Resisto.” è la sua risposta – e la fidanzata – Teresa/Cinzia Spanò: che convince, specie nella dinamica inaspettata con l’agente immobiliare -: quadratissima eppure risucchiata in questo vortice d’instabilità emotiva. E poi c’è lui, l’agente immobiliare: un figuro volutamente disincantato ed un po’ viscido – come lo definisce Teresa – e, per altro rispetto, impersonale. Come gli uomini con la bombetta di “Magritte”, dice di se stesso -, ma che in realtà è il personaggio che, in controcanto alle evoluzioni scomposte di questa generazione di giovani in preda alle loro intermittenze, disegna la parabola drammaturgica.

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E’ interpretato da un Corrado Accordino, che, se convince nel ruolo del cinquantenne rampante che non sa arrendersi al tempo che passa – la dice lunga, la squallida teoria del gancio -, ancor più lo risulta in quelle in cui, in fondo, fa da coro, offrendo un diritto di replica alla generazione dei padri, qui chiamata alla gogna. Penso al monologo/confessione o al suo confidarsi con Emma: dove il personaggio ha già cambiato coloritura affettiva e si prepara al soliloquio finale; lucido, eppure estraniato: a restituirci il cannibalistico senso di una generazione disperatamente inferocita e dolorosamente sconnessa, suo malgrado – “A cosa pensi?”, chiede, Teresa a Luca dopo la catastrofe; e lui non sa rispondere di meglio che con un solipsistico ed autoreferenziale: “Sono vivo”. E poi c’è lei, Barbara Cavaleri: una cantante, che, chitarra alla mano, dà corpo ed essenza all’anima nera di Emma. Ne svela le emozioni: quel che si cela, sotto alla sua corazza all’acido solforico; ne amplifica le disperate fragilità. Ce lo suggerisce, questo, il regista: fin da subito dopo il monologo/antefatto di Luca. E’ una sorta di scissione – atomica: embrionale – quella da cui si separano Emma – proiettata, di corsa, in proscenio: a confessarci già, in fondo, lo scacco matto di quel suo amore disperato – e il suo alter ego, che si aggirerà, invece, ad abitare situazioni, che non la vedranno.

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(credit fotografici di Attilio Maraschi)

Quasi uno spettro: la silente – eppure struggente – voce narrante. Il contraltare dell’ inquilino; perché se: “L’inquilino non ha un nome. …vive in spazi non suoi. …è un piccolo vampiro. Abita case per un’ora o una stagione e poi rimane nascosto nelle crepe a sognare una vita non che non è la sua.”, lei, al contrario, sustanzia e rende persistente Emma: fino alla fine.

Quel che colpisce è la struttura cinematografica della piéce: non a caso quegli scatti di diapositive, che, forse, ci dicono pure che è il non essersi mai saputi davvero emancipare dal fantasma della propria infanzia, uno dei peccati capitali di questi giovani non-adulti. Ed il regista Fabio Cherstich, sa renderlo con eleganza visiva, ottimizzando la disposizione in affondo dello spazio scenico e giocando efficacemente con luci di taglio ad evocare suggestioni; o smorzati occhi di bue: a mo’ di trasposizione teatrale del primo piano cinematografico. Felici anche certi movimenti scenici, in cui i personaggi sembrano scivolare reciprocamente: in un’ alchimia di rapporti negati. E poi tutta la conflittualità che esplode in azioni e parole, che spesso non fanno sconto alla realtà.

 Visto al Teatro Franco Parenti il 19 02 2014 

 

 

 

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