Teatro, Teatrorecensione — 27/01/2014 at 22:18

Teatro a confronto: La brocca rotta a Bolzano, L’officina storia di una famiglia a Trento. Il TSB si sdoppia

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Due nuove produzioni targate Teatro Stabile di Bolzano di cui una in collaborazione con il CSC – Centro Servizi Santa Chiara di Trento, hanno caratterizzato l’apertura della stagione teatrale 2013-14 del Teatro Comunale di Bolzano e del Teatro Sociale di Trento. La commedia “La brocca rotta” di Heinrich von Kleist andata in scena in prima nazionale il 7 novembre scorso, e “L’officina – storia di una famiglia” di Angela Demattè, andata in scena in contemporanea nello stesso giorno. Scelta singolare.  Due registi impegnati nel dirigere una commedia, capolavoro della drammaturgia tedesca e una storia legata alla terra d’origine dell’autrice del testo e protagonista sulla scena: Marco Bernardi e Carmelo Rifici il quale gli è stato affidato l’incarico dal direttore artistico del TSB, di allestire una vicenda legata al territorio trentino che racconta di una famiglia di artigiani dal 1926 ai giorni nostri.

Una prima collaborazione che ha visto le due più importanti istituzioni teatrali del Trentino Alto Adige collaborare efficacemente al fine di dare vita ad un progetto drammaturgico che esalti il proprio territorio e legga la sua realtà storica e sociale. Un classico del teatro considerata la commedia più bella del teatro germanico, “La brocca rotta” si distingue per essere tra i testi di Kleist come un testo che si distingue da quelli drammatici e onirici scritti dall’autore. Una commedia che si distanzia dall’oppressione dei suoi fantasmi poetici tipici della sua drammaturgia, dove il registro comico viene esaltato da un meccanismo raffinato e composto da un crescendo di battute, tempi scenici in successione in cui i personaggi contribuiscono a creare momenti di esilarante comicità.

 

 

Ma non ci deve far ingannare dalle apparenze: la commedia non è solo divertente ma contiene anche una feroce satira e tragica realtà che se era di attualità al tempo che fu scritta, oggi lo è ancora di più. Assistere alla trama che si svolge in scena lo dimostra per come la gestione del potere e del bene comune sistematicamente venga usato a fini personali e illegali a discapito della società. Marco Bernardi offre delle migliori regie della sua carriera a ridosso del termine del suo mandato di direttore del secondo Stabile italiano, scegliendo una lettura che esalta il registro comico della commedia assegnando agli attori ruoli determinanti in tutti per creare un meccanismo ad orologeria che funziona con un sincronismo perfetto.

Nata da una scommessa e da un gioco quando lo stesso Kleist insieme a degli amici decise di trarre un testo per il teatro, ispirandosi ad un’incisione artistica che portava il titolo de La brocca rotta, ambientando la vicenda in un ambiente fiammingo – olandese. Come un quadro ispirato dalla pittura di quei paesi del Nord Europa, lo scenografo Gisbert Jaekel ha creato un ambiente interno di una tale intensità visiva e suggestivo per fare da cornice alla storia che racconta di un giudice di un villaggio – un Paolo Bonacelli che incarna alla perfezione il ruolo di amministratore della giustizia corrotto quanto goffo nel tentativo di nascondere le sue malefatte, alle prese con una denuncia per una brocca rotta. Metafora potente che dietro ad un insignificante danno nasconde una realtà ben più occulta e greve. Dice bene il regista quando scrive nelle sue note di regia che “si pone una domanda molto seria: è la giustizia uguale per tutti? Un’allegoria sulla corruzione dell’amministrazione prussiana del diciannovesimo secolo che si adatta bene all’Italia di oggi. È un testo concepito in un periodo di grave crisi politica, simile a quella che stiamo vivendo ora”.

 

 

La trama si svolge in un tribunale scalcagnato popolato di conigli, sciatto e trasandato. Ci sta un giudice che più che dirimere controversie e sentenziare gozzoviglia e abusa del suo ruolo. La brocca rotta arriva in tribunale per mano di una donna – una magistrale Patrizia Milani che da al suo ruolo una decisiva interpretazione appassionata di una donna pronta a tutto a combattere per farsi giustizia per l’offesa ricevuta – accompagnata dalla figlia – Irene Villa –  anch’essa una brava e convincente nel caratterizzare una ragazza confusa nel confessare – che inizialmente da una versione dei fatti sospetta. A farne le spese un giovane del paese innamorato di lei – Riccardo Sinibaldi – accusato di essere il colpevole del danno e di aver approfittato della giovane. Tutto verte su una verità dei fatti che viene distorta dallo stesso giudice che appare sempre più compromesso. A giudicare il suo operato arriva un ispettore incaricato di ispezionare il tribunale – Carlo Simoni che da sfoggio della sua maturità artistica nel dare al suo personaggio un portamento elegante e severo – e il lavoro del giudice godereccio e poco avvezzo alle regole di come si istruisce un dibattimento. In questa parte affidata a Carlo Simoni si gioca tutta la vicenda che assume toni grotteschi dove si assiste ad una sequela di equivoci che alimentano la vicenda che diventa sempre più un incastro di scatole cinesi. La commedia sale vertiginosamente di ritmo ben orchestrata da Bernardi che fa risaltare bene le contraddizioni umane di ogni singolo personaggio. Ognuno degli attori danno il meglio di se stessi in una recitazione corale, da Karoline Comarella, Valentina Morini, due serve strepitose nel loro incedere claudicante e goffo, Maurizio Ranieri, Giovanna Rossi, Roberto Tesconi  e Riccardo Zini.

Roberto Tesconi è perfetto nella parte del segretario del giudice  Adamo, un uomo sottilmente perfido, un attore che imprime al suo personaggio un qualcosa di luciferino e fa da ottima spalla a Bonacelli, perfetto nel mettere nell’angolo poco alla volta il suo superiore disonesto e responsabile di aver rotto lui la brocca durante un’incursione notturna in casa della proprietaria, al fine di concupire la figlia e far ricadere poi la colpa sull’innocente giovane innamorato di lei. L’ispettore (Carlo Simoni) farà in modo di far emergere la verità grazie anche alla testimonianza di una donna (Giovanna Rossi che ha una presenza scenica di spessore) la quale trova la parrucca del giudice e smaschera il vero colpevole.

Lo spettacolo cresce scena dopo scena, rispettando come spiega lo stesso Bernardi – «uno straordinario “piano sequenza” che inizia e finisce senza soluzione di continuità, in tempo reale davanti agli spettatori». Il regista sceglie di esaltare il carattere più comico e sarcastico del testo rispetto alla denuncia dell’abuso del potere che dilagava anche ai tempi di Kleist, ma questa scelta risulta vincente. Apparentemente leggero lo spettacolo permette allo spettatore di farsi un’idea di come la disonestà degli uomini corrotti e avidi nell’approfittare del proprio ruolo pubblico, sia un comune denominatore che si tramanda di secolo in secolo. Gli attori ricoprono ruoli che concorrono a creare un ritmo in crescendo di piccoli colpi di scena, dove Bonacelli si trova ad essere sempre più sul banco degli imputati, lui che doveva essere chi giudicava.

Una presenza che esalta alla perfezione le caratteristiche del personaggio a lui affidato. La leggerezza che aleggia su tutto lo spettacolo rende piacevole e molto gradevole la visione confermata dal successo decretato dal pubblico, in occasione della prima andata in scena a Bolzano, e in occasione di una replica vista al Teatro Comunale di Tesero.

Nelle stesso momento a Trento al Teatro Sociale andava in scena “L’officina – storia di una famiglia” di Angela Demattè con protagonista Andrea Castelli, attore che ha trovato una sua affermazione artistica ormai consolidata nel recitare per il Teatro Stabile di Bolzano e per la terza volta diretto da Carmelo Rifici, già visto nella prova convincente di “Avevo un bel pallone rosso” e la “Rosa Bianca”. Una saga famigliare dentro la quale agiscono dinamiche affettive e sociali in cui la presenza maschile di padre in figlio sono improntate ad una supremazia rispetto alla presenza delle donne. Vige la regola non scritta che prima viene il lavoro e poi la famiglia, gli affetti, la vita domestica. L’officina tramandata da generazioni è una presenza incombente che rende inutile ogni altra passione o interesse.

Il lavoro come condizione indispensabile per mandare avanti l’azienda artigianale. E le donne di casa hanno un ruolo fondamentale per gestire l’economia famigliare. Si parla in continuazione di quello che c’è da fare e ben poco dei sentimenti che spesso vengono soffocati per non alimentare tensioni che potrebbero sfociare in tensioni anche drammatiche. La Demattè parte da un contesto di storia autobiografica giocando il doppio ruolo di interprete e di autrice che scrive in scena rievocando episodi della sua famiglia. Si viene a creare una storia che si si riflette allo specchio rimandando su uno schermo proiezioni di immagini storiche e biografiche. L’analisi che ne viene è quella di una denuncia-critica di come la fatica di vivere sia una costante di questa famiglia che cerca di non disperdere il suo patrimonio di saperi a fronte di una società che si evolve.

La mano efficace del regista Rifici prende in mano il testo e lo fa rivivere con un dinamismo scenico che gli è congeniale. Quadri veloci si susseguono per vivacizzare i passaggi storici dove si parla del bisnonno e di suo figlio, del fascismo mal tollerato, della guerra e del successivo rilancio economico che farà dell’Italia una nazione industrializzata. Sono i personaggi che fanno da testimoni di come la vita operaia e contadina si trasforma fino ai giorni nostri. L’uomo e la donna sono artefici del cambiamento ma ne subiscono anche le conseguenze. Una drammaturgia come quello della Demattè poteva contenere il rischio di cadere nella retorica o nella rappresentazione auto celebrativa, ma che per sua volontà nel creare una sorta di teatro e nel teatro (il finale tra lei e Andrea Castelli che dismettono i loro ruoli per essere se stessi e annunciare la fine della rappresentazione è geniale) che vuole attraverso la finzione dirci qualcosa di estremamente reale.

Rifici alleggerisce là dove è necessario per mantenere un ritmo di accelerazione nella vicenda , gioca sulla presenza scenica degli attori e gli fa muovere come pedine su una scacchiera. I vari ruoli maschili di Castelli che attraversano più generazioni danno la possibilità all’attore di offrire il meglio di sé, sempre misurato e convincente. Ci recitano attori e attrici giovani per interpretare donne che sovrintendono la casa e crescono i loro figli, uomini giovani che diventano adulti. Giuliano Comin, Sandra Mangini, Christian La Rosa, Olga Rossi e Nicolò Todeschin, a cui la regia affida ben undici personaggi che creano la storia nel corso di vari decenni ante e post guerra, fino ad arrivare ai giorni nostri.

 

 

L’evoluzione drammaturgica viene di tanto in tanto frammentata da momenti in cui si da conto della realtà storica a cui si lega la vicenda narrata. L’utilizzo di immagini rischia a tratti di diventare sovradimensionata, ma l’abilità della regia e della stessa recitazione di tutti gli attori, dove La Rosa sfoggia ottime capacità, fanno si che la concentrazione dello spettatore si rivolga a ciò che accade in scena. L’impianto scenografico firmato da Guido Buganza supporta bene il contesto in cui vivono e agiscono i personaggi. Nel primo tempo rappresenta un interno segnato dalla vita di tutti i giorni con le faccende domestiche che sono la controparte del lavoro in officina dove gli uomini trascorrono la maggior parte del loro tempo. Il secondo atto si spoglia delle suppellettili per divenire luogo astratto e metafisico dove finalmente vengono a galla gli attriti, la sofferenza celata, i rancori mal sopiti. Padri e figli si fronteggiano e non si comprendono.

 

La vita è cambiata e le nuove generazioni vogliono diventare protagonisti di se stessi. Non si parla più di bottega ma di azienda che intende aprirsi al mercato globale. Il passato ancorato alla nostalgia e il presente che guarda verso un futuro che avanza. L’analisi sociologica che sta alla base de “L’officina – Storia di una famiglia” ruota intorno a queste dinamiche umane ed esistenziali scorse come tante immagini cinematografiche con la scelta condivisa tra autrice e regista di affidare ad ogni attore più parti al fine di passare di generazione in generazione gli aspetti psicologici tramandate da padre in figlio accomunati dalle stesse problematiche del vivere. Un lavoro che avrebbe potuto godere di maggiore visibilità anche in altre piazze così come meritava La Rosa Bianca che a Trento non si è voluto o potuto rappresentare. Un vero peccato.

 

La brocca rotta di Heinrich von Kleist

regia di Marco Bernardi

con Paolo Bonacelli, Patrizia Milani, Carlo Simoni

visto al Teatro Comunale di Bolzano il 7 novembre 2013

 

L’officina-storia di una famiglia  di Angela Demattè

regia di Carmelo Rifici

con Andrea Castelli e Angela Demattè

visto al Teatro Sociale di Trento il 6 novembre 2013

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