Teatro, Teatrorecensione — 25/09/2013 at 21:47

Un meccanismo che convince fa muovere l’amore tra un anziano e il suo robot

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Nell’amore, si sa, ci sono incastri, incroci, meccanismi da oliare, ingranaggi da far funzionare al millimetro. Altrimenti tutto s’inceppa. Il cuore ha ragioni che la ragione non conosce. Da una parte l’emotività, dall’altra la razionalità. In un ammasso scenico che ricorda il passaggio di uno tsunami o di un tornado, tra spazzoloni e cappotti, mobili sfondati e cassette contenenti qualsiasi cianfrusaglia, abiti ed ombrelli, termosifoni e grammofoni, sedie e bottiglie (perché qui “Non si butta via nulla”) un anziano burbero e bisbetico, rifiuto a sua volta che la società ha emarginato, confinandolo tra le poche povere certezze nelle proprie quattro mura consolatorie, immerso nel suo labirinto antigienico di scartoffie, alla “Sepolti in casa” programma spazzatura e trashissimo che su Real Time fa il pieno di ascolti (grazie digitale terrestre per questo chicche ed opportunità di accrescimento culturale), deve far ricorso ad un aiuto esterno per risistemare l’abitazione, pena il ricovero in un ospizio, una casa di cura, la morte prima della morte.

Alessandro Riccio, che già con perizia di particolari aveva tratteggiato in altre sue piece quest’anziano (chiamato Orlando, forse perché “furioso”) arteriosclerotico ed arcigno, con una maschera che ricorda Ruggero, il padre maleducato in un fortunato sketch de “I Soliti Idioti”, ci porta compassione e pathos, pietà e sarcasmo tutto fiorentino, con una lacrima da Pierrot che inevitabile è pronta a scendere e rigare gli zigomi rugosi. Tristezza e il fine vita che si avvicina inesorabile in questa casa museo pericolante destinata ad ingabbiare, a cedere su se stessa come la conchiglia per il paguro, il carapace per la tartaruga, riparo e rifugio che diventano tomba, ultimo saluto terreno. Il prezioso Riccio si trasforma nel nonno di “Up”, ora pare Totò, adesso una tartaruga che fa l’hip hop al rallentì. I ricordi ammassati non salvano, la materialità, la roba di Verga non può allietare, come pensavano gli Egizi, il trapasso nell’Aldilà.

In una guerra tutta personale contro il mondo là fuori, come Apache e Cow Boy, nell’assedio dell’età (echi della pellicola “Un giorno di ordinaria follia”), viene aiutato e supportato da un assemblaggio di pezzi di ferro e di metallo con tanto di software e scheda madre. In una sorta di remake di “Io e Caterina”, con Alberto Sordi, una Gaia Nanni, precisa, puntuale, dal ritmo comico e lo sguardo nel vuoto, diventa il robot più sensuale mai visto, che tutti vorrebbero avere in casa per sbrigare bisogni primari e casalinghi. Con vocalismi ora accentuati e velocizzati, adesso rallentati, ora somigliando alla voce tecnologica e preregistrata delle Autostrade o del navigatore satellitare, un pezzo di ferro con un cuore di lamiera riesce ad entrare ed a far breccia, forse proprio perché non giudica l’anziano come uno scarto e non conosce il pietismo, nell’animo indurito, acido, astioso e rancoroso di Orlando.

Si scontrano due mondi, l’archeologia dei dinosauri e il futuro tecnologico al sapore del moon walk di M.J. ma nasce ugualmente un’alchimia, una vicinanza, un terreno comune, un sottile intendersi, un’empatia solidale. Ed allora l’oggetto usato e sfruttato e la persona che non serve più agli scopi collettivi, in questa società del benessere, che fa della giovinezza il suo scudo e baluardo, in questo mondo della bellezza estetica, si ritrovano vicini, a lottare fianco a fianco in una battaglia che non avrà vincitori. Gambe d’acciaio e gambe claudicanti, un grammofono gracchiante che scalda anche l’animo più duro e la bellezza delle piccole cose che poi messe insieme tanto piccole non sono. Anzi, una sull’altra formano una vita.

 

 

“La meccanica dell’amore”, di Alessandro Riccio, con Alessandro Riccio e Gaia Nanni, produzione Tedavi 98

Visto alla Chiesa di Sant’Alessandro a Giogoli (Scandicci – Firenze) il 17 settembre 2013.

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