Teatro, Teatrorecensione — 25/06/2015 at 21:22

Voci al femminile che raccontano la guerra. Il teatro che rievoca

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TRENTO – Il Teatro nella sua funzione attuale assume un ruolo fondamentale anche nel tramandare eventi accaduti nel passato, non come semplice ricostruzione storica, quanto, invece, strumento di riflessione e analisi  di quelle che sono state le dinamiche sociali, esistenziali, culturali che hanno determinato un evento e le sue conseguenze a venire. Un Teatro capace di radicarsi nel suo territorio di appartenenza sa raccontare le storie della sua terra, le trasmette alle nuove generazioni, dando la possibilità allo spettatore di approfondire a sua volta l’argomento, se stimolato positivamente dalla messa in scena alla quale ha assistito. Così è accaduto a “ Voci nella tempesta” della Compagnia Teatri incorso Spazio 14 di Trento, per la regia di Elena R. Marino (sua anche la drammaturgia) visto al Teatro Cuminetti nell’ambito della stagione di Prosa. Spettacolo vincitore della seconda edizione del concorso “Premio nuova_scena tn2”, istituito dal Centro Servizi Santa Chiara di Trento, in collaborazione con il Teatro Stabile di Bolzano e il Coordinamento teatrale trentino.

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La scelta artistica del direttore Francesco Nardelli di ampliare l’offerta teatrale, anche alle compagnie della città di Trento, conosciute per un lavoro più prettamente sperimentale e basate su una drammaturgia del territorio, si è rivelata vincente. Il Santa Chiara e il Teatro Sociale deputati alla prosa più classica (con incursioni sul contemporaneo) , il Cuminetti e il nuovo Teatro Sanbapolis utilizzati per compagnie giovani dedite alla ricerca. Un programma molto più ampio e variegato capace di soddisfare un pubblico generazionale senza limiti d’età. Lo spettacolo visto racconta di tre donne accomunate da tre destini che sono legati da un evento tragico qual’è stato il conflitto della Prima guerra mondiale (di cui ricorre quest’anno il centenario con un programma di eventi e commemorazioni molto nutrito, tra i quali si segnala l’inaugurazione sabato 27 giugno del Museo della Grande Guerra sulla Marmolada), vissuta e raccontata dalle donne. Una testimonianza al femminile di cui è giusto parlarne per capire come la guerra colpisce tutti, uomini e donne, militari e civili, senza distinzioni di sesso. Elena Marino affida a Silvia Furlan, Silvia Libardi e Chiara Superbi, il compito di interpretare, spiegare, testimoniare cosa significava vivere in tempo di guerra, a difesa delle proprie vite, di quelle dei loro figli, rischiando ogni giorno sulla propria pelle. Le storie raccontate prendono vita dai racconti che la regista ha tratto da diari, documenti autobiografici dove la narrazione si fa testimonianza preziosa di vissuti molto più esemplificativi di un semplice libro storico.

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La scrittura così ha preso forma fisica creando dei personaggi molto dinamici sulla scena, scarna, essenziale, simbolica. Sgabelli e secchi di latta diventano manichini rivestiti, le stesse tre attrici mutuano la loro stessa identità diventando, a turno, uomini e soldati. Si fondono nelle storie che loro stesse raccontano, spesso mediate da una matrice ironica e umoristica, scelta drammaturgica per non appesantire eccessivamente il dramma, rischiando cosi di aggravare e di rendere tutto più retorico di quanto lo sia di per sé, il portare in scena la follia, la disperazione, la tragedia bellica, umana ed esistenziale di un popolo. Quello trentino per la precisione che viene raccontato e drammatizzato. Si narra l’esodo forzato della popolazione trentina di lingua italiana ma appartenenti all’Impero austroungarico, a causa dell’entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria, vissuta come un tradimento nei loro confronti. Lo sguardo della regista supportato dalla recitazione che ha dei buoni momenti di creatività scenica e recitativa capaci di suggestionare ( tra tutte si distingue per la sua presenza e bravura Silvia Furlan), che assumano un valore aggiunto proprio perché sono narrati da voci femminili. La scelta di alternare dialoghi in lingua italiana e altri con l’uso di un dialetto trentino “addomesticato” (scelta pur comprensibile   che va a facilitare la comprensione da parte di un pubblico più eterogeneo) non è però così vincente. Meglio utilizzare il vero dialetto oppure scartarlo del tutto.

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Si è abituati a teatro, o nella lettura, a vedere e leggere storie di guerra interpretate e scritte da uomini, come se la guerra fosse un’esclusiva maschile. Non è cosi. Giustamente la regista spiega come “ le voci femminili hanno il privilegio di una visione obliqua sulla storia e sulla guerra, non nelle trincee ma dai lati delle vita civile (…) sulle abitudini di vita, sull’etica, sulla prossima costituzione di una società che riprenda il cammino dalle macerie”. Elena Marino da così un’interpretazione della guerra fatta di dolore, di sofferenza, di coraggio e di sforzo tutto al femminile, privilegiando la vita quotidiana, la fame e la miseria, puntando sugli aspetti non meno drammatici vissuti dalle donne. L’universo femminile che vive la guerra tra attese e speranze nel rivedere tornare a casa i propri mariti e figli. La scena si riempe di fumo e di nebbia, di figure che appaiono e scompaiono, di donne vestite a lutto che incutono nella prima scena un senso di rassegnazione per quello che sarà negli anni a venire tra il 1914 e il 1918. C’è il tentativo di attualizzare l’esodo dei profughi con quello della seconda guerra mondiale vissuto da milioni di persone deportate anche nei lager, e quello che accade ogni giorno con l’arrivo sulle nostre coste di migliaia di profughi provenienti da quei paesi così poveri e martoriati da guerre civili, da far pensare che nulla è cambiato nella storia dell’uomo. E non potrà cambiare. Si ritorna al discorso introduttivo nel sostenere l’importanza di un teatro che denunci e faccia riflettere, imponga nel pensiero collettivo la volontà di ripensare alle vere cause che determinano l’entrata in guerra da parte di nazioni e popoli cosi come accade oggi e come accadeva 100 anni fa.

Visto al Teatro Cuminetti di Trento il 27 maggio 2015

 

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