Teatro, Teatrorecensione — 25/06/2015 at 21:59

Nelle “Memorie” c’è tutta la vita di un attore: Giorgio Albertazzi

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MILANO – C’è una specularità fin troppo esplicita fra il protagonista di “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar e il canuto attore, che lo fa rivere in scena in questi giorni al Teatro Franco Parenti. E’ un Giorgio Albertazzi sorprendente, a ben pensarci: classe 1923 e ancora la voglia e il coraggio di salire sulla scena: nonostante “i limiti imposti dalla natura”, recita, fra le prime battute. Sono i lapsus, la fatica fisica, le gambe che, come rivela il vecchio imperatore, non lo reggono più, durante le cerimonie pubbliche e il corpo che si fa legnoso; la dizione, poi, non sempre scandisce in modo irreprensibile la foga della favella – lasciando occhieggiare, di quando in quando, l’inconfondibile accento tosco, che gli avrebbe fatto tanto più gioco in un testo di diversa tradizione. Eppure è lì, sulla scena, a testimoniare non tanto quella bravura, che la sua lunghissima stagione ha abbondantemente testato, quanto il bisogno – si parla tanto di ‘teatro necessario’... – di sentirsi ancora vivi e vitali. “Cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti”: è la chiosa in cui attore e uomo si fondono, sublimandosi in quella meta entità che il personaggio. “Cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti” diventa così quasi un manifesto, che non può non far scorrere un brivido fulmineo, a fil di pelle, se soltanto si alza lo sguardo su quegli occhi tremuli, eppure caparbiamente persi nell’ avvenire.

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Questa, la riflessione – rafforzata dagli analoghi esempi di ‘vecchi’ tenaci, che proprio in questi mesi si sono avvicendati sui palcoscenici milanesi. Gianrico Tedeschi, classe 1920, fino a pochi giorni fa in scena al Piccolo con “Dipartita finale” e, nell’inverno, sempre al Parenti con “Farà giorno”. Franca Valeri, anche lei classe 1920, e – anche lei – presente, l’anno scorso, nella stagione del Parenti con “Il cambio di cavalli” – riproposto da poco al San Babila. Ferruccio Soleri, 1929, ancora generoso nel dar corpo – e anima, soprattutto – allo storico “Arlecchino” di Strehler.. Fa pensare, tutto questo. Fa pensare a quanto sia ‘vita’, ‘vocazione’ e ‘bisogno’, questo mestiere – che tanto esige, in termini di dedizione e totalità, quanto restituisce, poi, in motivazione. Ne sono conferma gli innumerevoli esempi di spettacoli, che coinvolgono attori agés – da “Vecchi per niente”, ad esempio, che sarà riproposto al Parenti ancora nella prossima stagione a “Tramonto sulla pianura”, al Tieffe Menotti, che ha coinvolto un gruppo di attori non professionisti, trasformandoli in Grey Pound+60, la prima compagnia stabile over 60.

Verrebbe da chiede cosa li sostenga in un impegno che è fatica, dedizione, disciplina e metodo – perché poi sul palco possa arrivare qualcosa di fluido e leggero. La risposta probabilmente è in quella chiamata – vocazione – e in quel ‘fuoco sacro’, che il teatro è – da sempre e a qualsiasi età – per chi sia disposto a abbracciarlo con quella disponibilità totalizzante, capace di renderlo la sola scelta – di vita – possibile.
Ma torniamo a “Memorie di Adriano” per la regia di Maurizio Scaparro. Un testo importante reso sul palcoscenico dalla linearità essenziale dei pochi elementi di scena e dal suggestivo gioco di luci – precise, dal taglio netto e dalla cromaticità azzeccata. Ad aggiungere atmosfera i suoni dal vivo del percussionista Armando Sciommeri e gli striati gorgheggi di Evelina Meghnagi – “una delle più affascinanti interpreti della musica ebraica mediterranea” com’è stata definita. E in questa ammaliante cornice quasi solo lui, Albertazzi/Adriano – a reggere l’intero gioco della fascinazione teatrale con la sua a tratti fragile fatica.
Un classico – si diceva – che, col pretesto di ripercorrere la biografia dell’imperatore, di fatto non perde l’occasione per trarne spunti di riflessione dal respiro più universale. “Se tutto è vano, lo è anche la virtù”, inizia e poi: “Ho cercato la libertà più che il potere e quest’ultimo soltanto nella misura in cui agevolava la libertà” o: “Il nostro errore più grave è quello di cercare di destare in ciascuno proprio quelle qualità che non possiede, trascurando di coltivare quelle che ha”, sono alcune della perle che dispensa, l’imperatore, in questa ideale lettera-testamento spirituale al giovane Marco Aurelio. Parla della propria vita – evocando le ‘voces’ dell’infanzia, ossia figure di cui non sa dire se siano sogno o fantasmi. Ripercorre le tappe dell’ascesa politica e militare, ma senza trascurare l’amore per le lettere, la cultura e la filosofia: due mondi paralleli, quasi, che ha abitato simultaneamente col solo scarto di una lingua: il greco – ovvero la lingua in cui “ho pensato, ho vissuto, ho amato”, dice, confidando che in quella vorrebbe fosse scritto il suo epitaffio – e il latino – “la lingua, in cui ho governato”.

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Quanto basta per far affiorare l’uomo, prima ancora che l’imperatore. E se l’attore resta forse un poco lontano, quando parla del piglio con cui, da giovane, ero corso alla guerra – quasi paventando il rischio di ‘mollezze’ nascosto nella vita dell’urbe – inizia a coinvolgerci di più, fin dall’ingresso di Plotina/Stefania Masala, moglie di Traiano e con cui aveva stretto un sodalizio tanto intimo quanto platonico. Il climax ascende quando parla dell’amore: dalle disilluse passioni, intrattenute ai danni della donna sposata per ‘ragion di Stato’, alla preferita fra le amanti. L’acme lo raggiunge nella rievocazione di Antinoo, il giovinetto greco per il quale provava una tenerezza appassionata, nonostante il suo carattere schivo. Di lui dice: “Sono stato padrone di un solo essere: una presenza straordinariamente silenziosa come un animale o un nume tutelare” e ne ricorda l’esclusività dell’amore, ma poi pure il “bisogno di ferire quella tenerezza ombrosa”, rievocandone con dovizia di particolari bellezza fisica e dedizione totale – fino al sacrificio estremo.
E’ con questa screziata pluralità di sentimenti, che si avvia alla fine, un Albertazzi in crescendo: fino ad ammettere: “Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo” – di un mondo, in cui i filosofi avessero un loro posti ed i danzatori pure – per poi inerpicarsi in quel monologo finale, che forse non sarebbe stato così perturbante, se non fosse stato soffiato da un grande vecchio.

Visto mercoledì 24 giugno al Teatro Franco Parenti di Milano in scena fino al 2 luglio

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