Teatro, Teatro recensione — 23/04/2015 at 22:18

“Senza filtro”: un atto d’amore per Alda Merini

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MILANO – “Senza filtro” fa venire in mente le sigarette – o forse, chissà, quel modo di porsi di fronte alla vita senza diaframmi, protezioni, sovrastrutture.  E “Senza filtro” di Fabrizio Visconti e Rossella Rapisarda – regista, l’uno, attrice, l’altra di questo toccante monologo –, i significati li unisce un po’ tutti e due. Ci parla di Alda Merini – la poetessa dei Navigli. Ce ne parla con tutta la poesia delle ‘piccole cose’ – quelle da cui “si soffre troppo a separarsi”, recita il testo. Ci racconta di un’umanità bislacca, ma poetica: caotica, arruffata, spersa, ma poi anche vera, generosa, candida, disarmante. Lo fa con un linguaggio capace di sintetizzare – e transustanziare, quasi – i corni estremi della contraddizione: è poesia – lirica, a tratti -, ma senza mai scordarsi della prosaicità fin troppo tangibile di una vita fatta davvero di cose piccole piccole. La collana “fin troppo lunga”, il rossetto “rosso, rosso, rosso” e quell’anello così grande da poterselo far agevolmente scivolare da un anulare all’altro così, per semplice forza di gravità. “E’ il tempo, che fa diventare grosse le cose”: “i piedi ‘del’ Giancarlo”, ad esempio, a furia di andare avanti e indietro, per i tavolini del bar, con in mano sempre un vassoio per due: “Lui e lei… o lei e lui…”. C’è tutta la poesia dei diseredati dall’amore: di chi quel miracolo può solo spiarlo dal di fuori e lasciarsene commuovere, ma poi restarne esente.

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Un angelo – “Gli angeli non capiscono l’amore, se no ne morirebbero, ma lo guardano con tenerezza”. Un clown – forse un po’ goffo, con quei piedoni. Sono questi, i personaggi quasi felliniani, che vengono evocati dagli stralci di racconti della protagonista – un angelo, a sua volta: che non ha ancora imparato a fumare e che aspetta, con sempre maggior consapevolezza che non sarà il ‘solito ritardo’ dell’Aldina, questo.  E’ una scelta precisa: non una biografia storiografica della Merini, ma un tributo costruito per suggestioni. In fondo un ‘atto d’Amore’ – di quell’amore, di cui lei stessa ammetteva di aver sempre avuto ‘fame’. Curioso: la medesima suggestione si trova anche in una delle poesie di Spoon River, “Minerva Jones”, in cui la poetessa del villaggio chiosa la sua epigrafe con un parole praticamente identiche: “Ero tanto assetata d’amore! Ero tanto affamata di vita!”.

Questa, in fondo, la scelta di Visconti/Rapisarda, che se da un lato edulcora tutto l’aspetto psichiatrico – non mancano i riferimenti all’esperienza manicomiale anche se vengono offerti come spunti, in quadri preziosi e, ancora una volta, all’insegna del ‘piccolo’ -, di fatto invece poi preferisce raccontare l’Aldina in tutta la sua umanità. La testimoniano ancora, attraverso le parole dell’angelo, gli amici del bar Charlie, dove di fatto è ambientato la pièce – e dove la musica non ha smesso di suonare. “I soldi vanno e vengono… Ma la musica è il miglior investimento: senza la musica non si può sentire l’amore”. Ed ecco spiegata la presenza in scena di Marco Pagani a pizzicare canzonette o modulare musiche e composizioni rumoristiche sue originali. “Senza la musica, la vita sarebbe un errore”, scriveva Nietzsche – altro ‘matto’, ma che la storia ricorda per il suo genio; un altro ‘matto’, la cui biografia narra del bisogno spasmodico d’amore e, più profondamente, di accettazione. In fondo, lo stesso mood di quel meriniano: “Come si fa ad amare la carne, senza baciarne l’anima?” o, ancora, “Un amore così bello bello non doveva far male”. Ecco quel che resta: una macchina da scrivere – felice, l’idea registica di farne fulcro della narrazione. Fabrizio Visconti – regista – e Marco Muzzolan – scenografo – la pongono di taglio a centro ribalta. Una sedia a destra ed una a sinistra, a raccontarci già le fila del gioco: la Merini ed il suo doppio, lei a brillare per la sua assenza – è il primo novembre, il giorno dopo la sua morte, per chi ne mastichi la biografia – e l’angelo ad affannarsi per capire, raccontare, trovare un filo, un senso, un finale. Ma in fondo è tutto lì: in quel gioco a specchio – a destra e a sinistra della macchina da scrivere, provando a mettersi nei panni di lei, per capire che quel foglio bianco lasciato, “violento” nel suo candore, in realtà ce l’ha ben scritto il suo (happy) end.

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“Che bella poesia è stata la mia vita: mangiare a letto, dormire con le scarpe e non avere fissa dimora”. Una vita fatta di disordine – “in principio era il caos… ecco perché le donne disordinate sono divine” e, ancora: “Nessuno mi pettina bene come il vento”-, di nebbia, cancelli, sbarre, polvere. Ma poi “è la polvere quel che permette di volare alle farfalle” e: “Le cose, quando mettono le ali, poi bisogna anche saper lasciarle andare…”. E’ questa la poesia delle piccole cose, il tributo d’amore e di verità reso all’Aldina. “Quando le donne si fanno belle non lo fanno per vanità, ma per sentirsi amate”. Ecco, è un po’ questo. E mentre il palcoscenico è ingombro di una scenografia tridimensionale e decostruttivista – quelle sedie spezzate a metà: un po’ simbolo delle coppiette del bar, un po’ stigma degli affamati d’amore, sfregiati, nell’intimo, da tagli insanabili -, sembra quasi di vederle annaspare, le mani della Merini, divenute grandi per l’ imperativo categorico dello scrivere – specie nei giorni della follia. “Scrivi, Aldina, scrivi!”: per incidere il senso delle cose – o, forse, “per aggrapparsi alla scandalosa bellezza della vita”.
In scena il tutto è restituito dalla Rapisarda: cappottino e abitino anni “60 assolutamente bianchi – soltanto un fiore nero, appuntato all’altezza del cuore, forse simbolo del lutto – e quella sua modalità di recitare generosa eppure sperduta, surreale, poetica, ma a tratti fragile come quella di chi senta di testimoniare qualcosa, che, forse troppo più grande, senz’altro la eccede e sovrasta.

Spettacolo visto al Teatro Leonardo di Milano, il 21 aprile 2015

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