Cinema — 22/06/2021 at 11:25

«Etiam si omnes, ego non». Il cinema racconta Simone, detto, Pietro.

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Avvicinandosi la festa dei Santi Pietro e Paolo (29 giugno), la redazione di “Rumor(S)cena” propone ai lettori una breve ricognizione sul sotterraneo dialogo tra la raffigurazione del “principe” degli Apostoli e l’evoluzione del linguaggio filmico. L’articolo è stato pubblicato anche su “Communio”, periodico spezzino di informazione e dialogo parrocchiale (anno XVI, n. 53, 06/2021). Una serena estate a tutti!

RUMOR(S)CENA – Per intuire da quali tratti dell’Apostolo Pietro la settima arte sia rimasta attratta fin dalle origini, in aiuto del lettore accorrono i Discorsi di Sant’Agostino sul Nuovo Testamento (Disc. 51-183); esattamente il n. 76, imperniato sul sinottico Matteo (MT 14, 24-33): “[…] Il medesimo Pietro in un solo brevissimo spazio di tempo, poco prima è detto beato, solo un istante dopo, Satana. Se ti meravigli della differenza delle due parole, devi considerare la diversità dei motivi. Perché ti stupisci che prima è proclamato beato e poi Satana? Rifletti al motivo per cui era stato detto beato: «Poiché questa verità non te l’ha rivelata la carne e il sangue, ma il Padre mio celeste». Beato, dunque, perché “non te l’ha rivelata la carne e il sangue”. Se infatti te l’avesse rivelata la carne e il sangue, ciò sarebbe derivato dal ‘tuo’ sentimento ma poiché non te l’ha rivelata la carne e il sangue, ma il Padre mio celeste, ciò è derivato dalla ‘mia’ ispirazione, non dal tuo sentimento. Perché dalla mia ispirazione? «Perché tutto quello che il Padre possiede è mio». Ecco: hai sentito il motivo perché fu chiamato beato e perché Pietro. Perché invece fu chiamato col nome di cui abbiamo orrore e non vogliamo ripetere? Perché, se non per la rivelazione venuta dal sentimento? «Poiché tu non ragioni secondo la mente di Dio ma secondo quella degli uomini»”.


H. Prélier, R. Le Vigan in Golgotha
(‘35); crediti: Pathé (Paris).

Con le debite differenze, Simone detto Cefa (ossia “Pietro”), pescatore a Betsaida, in Galilea, parrebbe quindi anticipare il moderno credente, con il suo arduo groviglio di forza e fragilità ad un tempo («Lo spirito è pronto, ma la carne è debole»; MT 26, 41); egli, sì, possiede il carisma dell’insegnamento e della carità ma conosce anche la pena, il grave, quotidiano discernere fra ciò che, appunto, viene da Dio e ciò che, invece, viene dagli umani affetti, timori e illusorietà. Tre volte disconobbe il Cristo (LC 22, 54-62) e tre volte promise di dare alle Sue greggi il vero bene, il nutrimento della Parola e della Sua presenza: fra questi due estremi si danno le principali suggestioni dal grande schermo. Commentiamone, in breve, alcune.



F. Currie in Quo Vadis
(‘51); crediti: MGM (L.A.).

Nell’Era del Muto, Pietro essenzialmente non si distingue, se non per irruenza: si avventa, ad esempio, sull’armigero Malco («Rimetti la tua spada nel fodero; non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?»; GV 18, 10-11) in Dalla Mangiatoia fino alla Croce (1912) di Olcott, pionieristico colosso d’oltreoceano; viceversa nel nostrano Christus(1916) la regia di Guazzoni e del conte Antamoro combina l’assillo della serva del sommo sacerdote (MC 14, 66-70) alle sevizie e ai dileggi della folla (LC 22, 63-65) sicché Gesù (Alberto Pasquali) e il santo Apostolo subiscono, nella stessa sequenza, un comune, lungo sopruso: accostamento, questo, che ritroveremo pressoché identico, novantadue anni più tardi, nel discusso La passione di Cristo. Spunti figurativi e narrativi tutt’ora godibili segnano, poi, Il Re dei Re (‘27) di DeMille ma, eccetto per il fatidico canto del gallo (LC 22, 63-65), la presenza di Pietro ancora non incide, causa ne è l’eccessiva bonomia dell’attore Ernest Torrence.

Ben altro lo spessore che si impone con l’avvento del sonoro. Golgotha(‘35) di Duvivier risplende grazie al bianco e nero di Jules Kruger – ispirato a certe incisioni di Rembrandt – ma soprattutto grazie a Robert Le Vigan nelle vesti del Redentore, colto in primi piani quasi inquietanti per grazia e abbandono estatico, fra i quali uno memorabile dove il solo sguardo viene illuminato dalla cinepresa mentre cade, in tralice, severo, su Pietro (Hubert Prélier) che, per la terza volta, rinnega il Maestro. Nell’epilogo, invece, vediamo, forse per la prima volta in un film religioso, il pescatore di Galilea venire investito della guida della Chiesa, adempiendo verso il popolo lo stesso compito che incombe al pastore («Pasci i miei agnelli»; GV 21, 15-17), mentre la profezia sulla sua definitiva “chiamata” – quella che lo condurrà dove lui non vorrà andare (GV 21, 18-19), sulle orme del suo Signore che nel Getsemani «ha sperimentato lo stesso cammino oltre i desideri della carne» (dal commento di padre Silvano Fausti all’omelia di inizio pontificato di Benedetto XVI) – viene inscenata, pur con ingenue romanzature e aggiunte provenienti dagli apocrifi Atti di Pietro, in Quo Vadis(‘51) di LeRoy dove, stavolta, è il caratterista scozzese Finlay Currie ad impersonare il santo Apostolo, spronato da Dio sulla via Appia per bocca del piccolo Nazario: «Il mio popolo a Roma ha bisogno di te. Se diserti il mio popolo, io andrò a Roma a farmi crocifiggere di nuovo».



J. Farentino, R. Powell, I. McShane in Gesù di Nazareth
(’77); crediti: RAI (Roma), ITC Ent. (London).

Ancora, le lacrime di Pietro (Settimio di Porto), sottolineate dalla musica di Bach, bagnano un vicolo dei Sassi di Matera, sfondo de Il vangelo secondo Matteo (‘64) di Pasolini, donandoci un momento di autentica commozione. Nel raffinato e ieratico La più grande storia mai raccontata (‘65), il più “giovanneo” tra le pellicole di ispirazione evangelica, lo spettatore assiste finalmente al riconoscimento pieno, da parte del nostro (Gary Raymond), non solo della messianicità di Gesù (Max von Sydow) ma anche della sua filiazione divina («Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»; MT 16, 15-17). Oltre a ciò, sempre nell’opera di Stevens, Pietro invita la gente, riunitasi di notte nel tempio, a intonare il Salmo di Davide («Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male…») dopo aver udito Gesù proclamare «Mentre avete la luce, credete nella luce, affinché diventiate figli di luce» (GV 12, 36).

Nel denso Gesù di Nazareth (’77) di Zeffirelli, l’italo-americano James Farentino dona, infine, voce e movenze al Pietro “filmico” più gradito e caramente ricordato dal grande pubblico per la capacità di unire impeto e sensibilità, di passare con un battito di ciglia dal turbamento alla chiarezza. All’incredulità dei discepoli verso l’annuncio della Resurrezione portato da Maria di Màgdala (MC 16, 9-11), il copione contrappone l’amaro, mite dissenso di Pietro il quale rielabora in prima persona le parole del Maestro sul Suo destino a Gerusalemme (MT 16, 21), accorpandole perfino a precoci pensieri dagli Atti degli Apostoli («Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, così come i vostri capi»; Atti 3, 17).

Ragioni di spazio impediscono una più diffusa analisi di altri film – come Tu lo condanneresti? (‘74) di José Luis Sáenz de Heredia, ispirato alla pièce Processo a Gesù di Fabbri, o il più recente Maria Maddalena (2018) nel quale il santo Apostolo è incarnato dal carismatico Chiwetel Ejiofor, anglo-nigeriano – ma ci auguriamo ugualmente di aver suscitato una certa curiosità e la voglia di pescare a fondo in quel “lago di tesori” che fu e continua ad essere il cinematografo.

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