MASSAFRA (Taranto ) – Il Teatro delle Forche ha casa a Massafra. Una delle residenze della rete pugliese. E’ da anni in questa piccola e carinissima cittadina di provincia edificata su gravine di età imprecisata. Lì nelle gravine si formalizzavano i primi tentativi di rappresentazione all’alba dei tempi. Di origine religiosa, poi Panica, infine orgiastica. Terra di misteri eleusini, terra del dionisiaco, di tarantate e vespri di buono (o cattivo) auspicio.
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Oggi è un po’ diverso. Il teatro qui lo si immagina di Pirandello, Shakespeare, Goldoni, De Filippo. Sacralità. Ma il teatro è anche altro. Lo sa chi lo fa per mestiere. E cerca di educare questo pubblico, affezionato alla tradizione, a linguaggi contemporanei; senza automatizzare l’uomo ai nuovi media o alla virtualità tecnologica.E quelli del Teatro delle Forche lo fanno. Lo fanno da tempo. Contestualizzandosi nel territorio. Non facendo arte per incensarsi. Tant’è che il pubblico, a fine rappresentazione di “Come tu mi vuoi” – che non è certo Pirandello né ha nulla di canonico o classico tradizionalmente inteso – giurano che è tutto limpido, tutto intuibile seppure vestito dei velati abiti della sperimentazione, della ricerca, del non immediatamente intellegibile. Quel “vedo non vedo” che alimenta il rapporto d’intesa tra pubblico e attori. Quel palesarsi a poco, per chiavi di lettura molteplici. L’erotismo di cui parla Lehmann per spiegare il post-drammatico.
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“Come tu mi vuoi” porta in scena una tematica comune, urgente: il lavoro. O meglio, la mancanza e la precarietà. Giancarlo Luce e Ermelinda Nasuto canalizzano un testo assemblato dai racconti di Tommaso Pincio e Christian Raimo. Due autori romani che cercano di dribblare la crisi scrivendo bene. Fisicità e impegno in questa produzione ultima del Teatro delle Forche. Un continuo movimento, una corsa interrotta solo nel finale, quando una pistola spunta in scena e i due protagonisti mirano l’uno contro l’altro: la rabbia sociale sfocia nell’uomo contro uomo. Per un’ora abbondante di inscenato corsa ed esercizi fisici a composizione di scene, grammatica drammaturgica: perché “il mondo sembra fermarsi e la gente corre” dice il regista Giancarlo Luce nel dopo spettacolo. Lo sport analogia di approccio religioso collettivo, oppio dei popoli, uno strumento di evasione nazional popolare. E all’incensare il corpo per non perdersi, per consunzione mentale. Menti consumate dai compromessi, dalle sudditanze, dalle fatiche per redditi non commisurati ai reali meriti.
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Uno scontro generazionale, inoltre, tra un diversamente giovane e una ragazza trentenne. Uno spaccato sociale. Dove la biomeccanica la fa da padrone, dando contesto a un tema sdrucciolevole nella retorica, altrimenti. La reiterazione del modus scenico appare altra traccia di poetica, a mantenere un ritmo elevato e gradevole ma eccessivo, a tratti, per l’economia generale dello spettacolo. “Stare sia dentro che fuori dalla scena non è semplice” – confessa ancora il regista – “essere sia attore che alla regia confonde”. E gli diamo ragione. Fatto sta che lo spettacolo, in cui la forza attorale è midollo per l’efficacia, perde ogni tanto di smalto. Bene il coordinamento fra gli attori, pur essendo individuali per gran parte dell’allestimento, connessi verticalmente tra loro: effetto straniante. La Nasuto a suo agio con una partitura fisica e linguistica non di semplice affronto in cui dimostra talento e crescita in progressivo. Luce conferma la sua esperienza, sincronizzando, voce, corpo, gesto, facilità di espressione, tenuta di scena. Dedicandosi meno alla partitura e maggiormente al ‘darsi’, lo spettacolo rimbomberebbe.
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