RUMOR(S)CENA – FIRENZE – Nel silenzio denso del Teatro del Maggio Fiorentino, Caravaggio, balletto in due atti di Mauro Bigonzetti, creato nel 2008 per lo Staatsballett Berlin, si è imposto come un affondo nell’anima di un artista e nell’essenza del chiaroscuro, restituito con pennellate create da corpi danzanti, luci taglienti e un’intensa partitura che trabocca di memoria barocca.
Il sipario si apre in un buio sospeso su Caravaggio dove Roberto Bolle, nei panni del pittore, ha superato l’idea dell’icona, lo ha reso vivo, fragile e spigoloso. Il suo Caravaggio è stato attraversato da tensioni interiori che si rifrangono in ogni gesto, in ogni contrazione muscolare. Il corpo si è fatto pennello: le braccia hanno disegnato traiettorie spezzate, i piedi hanno scavato il suolo come a volerlo incidere, e lo sguardo, costantemente proiettato oltre, ha costruito una narrazione tragica. La sua danza è stata costruita su fratture, sull’impossibilità dell’equilibrio, su questa instabilità magnetica.

Al suo fianco, Maria Khoreva è una Luce che incanta, ma non consola. Con linee lunghissime e una musicalità che sfiora l’irreale, la danzatrice attraversa la scena come un’apparizione di purezza. La sua tecnica si incarna in una presenza algida, quasi sacrale, che suggeriva salvezza, ma era parte del dramma. Bigonzetti ha costruito la coreografia per fratture e contrasti, non per flussi. Nei duetti centrali tra Caravaggio e la Luce, Maria Khoreva è stata un effluvio di linee, port de bras cesellati e arabesque sospesi oltre i limiti. La purezza della sua tecnica acuiva la sofferenza danzata da Bolle, in un soliloquio fatto di sguardi e mani tese, vicinissime eppure irrimediabilmente separate.

Anastasia Matvienko, nel ruolo del Buio, ha mostrato una danza tutta centrata su dinamiche interne. Devastante, si espandeva come una colata capace di infiltrarsi ovunque. È stata il controcanto perfetto della Luce, ma la completava. Nei duetti con Caravaggio, Matvienko ha generato un’energia quasi tellurica, fatta di respiri spezzati, impulsi trattenuti, improvvise esplosioni, plié profondi e repentini slanci in salto.
La Bellezza, affidata a una sontuosa Ekaterine Surmava, è stata pura eleganza: développé altissimi, pirouette impeccabili e una delicatezza da pittura luminosa. Ma anche la Bellezza è parte del conflitto: i suoi momenti più lirici si interrompono, come se perfino la bellezza non potesse restare intatta di fronte al dolore. I duetti con Caravaggio sono stati momenti di struggente lirismo, ma anche qui le linee si sono frantumate, interrotte, distorte. Bigonzetti ha scolpito la danza come il celebre pittore la luce, per sottrazione, per cesura.
Di grande impatto anche i quadri corali, in cui i Bacchi (Luca Curreli Rose e Federico Labate), hanno offerto un contraltare quasi orgiastico alla solitudine dell’artista. Vania De Rosas nei panni della Zingara è stata magnetica e ha mescolato carattere e scatti ritmici riempiendo la scena di folclore visionario. Gioacchino Starace, linee nette e un ballon soffice, e Ildar Young-Gaynutdinov, nei ruoli dei Solisti Uomo 1 e 2, hanno impressionano per la loro potenza scenica e per le loro abilità narrativa

Il coreografo è tornato a Monteverdi con una materia carnale. La sua coreografia è una macchina scenica precisa, ma mai compiaciuta: tagli netti, torsioni, scontri, rilanciano continuamente la tensione fra vita e arte, corpo e visione. Le dinamiche sono sempre spezzate, quasi mai fluide, nel segno di una scelta che rifugge la bellezza come fine e la cerca come effetto collaterale del dolore. La partitura di Bruno Moretti è un capolavoro di alchimia: costruita su materiali di Claudio Monteverdi, il barocco emerge e si inabissa continuamente, trasfigurato in atmosfere elettroniche, in sospensioni sonore che sfumano nel silenzio, in esplosioni percussive che risuonano come fendenti. Il risultato è una colonna sonora perfettamente aderente alla coreografia: non la accompagna, la anticipa e la segue, come un’ombra sonora.
Carlo Cerri ha firmato una scenografia scarna ma potentissima: una grande parete inclinata che incombeva e imprigionava, lame di luce che tagliavano lo spazio e creavano fondali impossibili, a richiamare quelli che tanto amava Michelangelo Merisi. A spezzare la scena, verso la fine del primo atto, da una grandiosa cornice dorata sospesa un drappo rosso viene steso da Bolle come un fiume di sangue che zampilla da un quadro. Quel tessuto è una quinta mobile ed anche simbolo di tormento, espressione della violenza estetica che permea tutta l’opera. Le luci, sempre di Cerri, sono state la vera seconda coreografia dello spettacolo: mai illustrative, hanno costruito un controtempo visivo, una narrazione parallela fatta di bagliori, oscurità improvvise, intermittenze emotive.
I costumi di Lois Swandale e Kristopher Millar erano essenziali: pelli nude, tessuti cangianti, drappi che sembravano presi direttamente dai quadri. La loro peculiarità è stata nel non rappresentare il Seicento, ma nel restituirne lo spirito attraverso materiali contemporanei. In conclusione, Caravaggio di Mauro Bigonzetti non è uno spettacolo da capire, ma un viaggio senza ritorno nei meandri della creazione dell’omonimo artista, nella disperazione della bellezza che ci ha tramandato, nella violenza della luce che ha dipinto. È raro vedere un lavoro tanto coerente nei suoi molteplici linguaggi. Danza, musica, luce e spazio si sono fusi in una visione potente, oscura, eccessiva, come un quadro di Caravaggio, appunto, ma viva, pulsante.
Visto l’11/05/2025, Teatro del Maggio Fiorentino, Firenze