Teatro, Teatro recensione — 21/01/2015 at 21:55

Un Otello “furioso” che Luigi Lo Cascio fa parlare in siciliano

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MILANO – Un “Otello… furioso“, quello di Luigi Lo Cascio in scena al Piccolo Teatro di Milano fino al primo febbraio. In siciliano, giocato sul registro de lo cunto e con un’allusione più letteraria che recitativa al mondo dei pupi. Essenziale, destrutturato, basato sui soli Otello, Desdemona e Iago – oltre che Lodovico, cugino di lei – alle prese con due oggetti topici: il fazzoletto ed una sedia… elettrica – paventato oggetto di torture più intime ed auto inferte, che inflitte dall’esterno.
L’idea di Luigi Lo Cascio drammaturg è quella di giocare fra due punti di vista: quello di Iago macchinatore – ottimamente interpretato dall’attore stesso – e quello di Lodovico – Giovanni Calcagno suo degno alter ego narrante -, cugino di Desdemona, a cui la fanciulla si rivolge – atto IV scena I – per cercar di redimere l’antipatico screzio occorso fra il valoroso generale ed il suo luogotenente. Così si apre, l’escussione dei fatti, dopo che un candido drappo calato dal cielo si è dipanato a farsi schermo, accogliendo il grottesco e simbolico cunto del fazzoletto, esplicitandone senso e portata. Il racconto poi si gioca per snodi drammaturgici, in un sofisticato impianto registico, che fa della spoglia essenzialità delle scenografie – e di un sapiente gioco di toni cromatici torvi e di bui improvvisamente avvampati da folgoranti tagli di luci – la più perfetta cassa di risonanza per quel dramma così stratificato e denso da non aver bisogno d’altro, per essere spiegato.
Dunque due punti di vista: quello di Iago, interno, e quello di Lodovico, una sorta di Prologo, ma poi anche Coro, ad esplicitare tutte quelle intenzioni e riflessioni, che sono apporto precipuo delle riflessioni del rivisitatore contemporaneo. E’ lui che alza e abbassa i pesanti oltre che simbolici sipari neri; è lui che tiene la fune dello “Iago Incatenato”, che irrompe dalla platea a raccontare – a posteriori – la propria versione dei fatti.

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Non c’è proporzione fra il torto subito e la punizione macchinata – e riecheggia, in quell’espressione, l’accento di Eduardo in ‘Uomo e galantuomo’ -. Allora perché l’ha fatto, Iago?”
E si scivola nel cliché: “Le donne sono tutte buttane! Tutte, tranne mia madre. […] Tutte! Compresa mia madre..” e si apre lo spaccato di uno Iago-Narciso – ventottenne detentore di quell’assennatezza, tante volte riconosciutagli dal folle Otello -, che, au rebours, nella gabbia – questa l’immagine finale dell’originario shakesperiano -, si affaccia dalla cornice di un quadro ideale, posando per il proprio ritratto. E’ elegante: si è fatto prestare una cravatta dal secondino, ci informa, e sfoggia un impeccabile abito maschile, mentre si confessa – sempre in siciliano strettissimo. Però poi sembra essere la cornice luminosa – il Narcisismo stesso -, la vera protagonista – come del resto lo sono, sarà rivelato altrove, per tutto il tempo solo categorie ideali: Amore, Morte, Vendetta, Gelosia, di cui tutti noi non siamo che dei pupi senza fili, né rigide fattezze e, così, non ce ne accorgiamo.

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Così meschine – nell’originaria accezione di sventurate, che il dialetto siciliano mantiene – appaiono anche le motivazioni di Iago, mentre racconta dell’atroce fortuita visione dell’adulterio materno, che come uno tzunami travolse la sua innocenza di picciotto, innamorato della madre. Eccola, la vera ragione – edipica! – dell’accanimento di questo Iago, che, se come si conviene ha preso moglie, si è poi sistematicamente sottratto alla condivisione del letto, ammette – auto infliggendosi la consolazione eroica del bastare a se stesso.
Ma può bastare, al pubblico, questa risposta? Tanto più che si tratta di un’evidente libera interpretazione. I costumi stessi cambiano: abiti contemporanei, come a dire: “Qui siamo in un altro contesto”. Così ci ‘s’inventa’ di farli planare sulla luna – ad esplicitare fino in fondo la metafora dell’ “Orlando Furioso”, anche se qui il viaggio è per recuperare ‘pianti&sospiri‘ di Desdemona – anziché, curiosamente, il senno del generale – e il fazzoletto, con cui costui vuol ergere un altarino alla donna amata immolata al dio dell’Onestà, di cui si è auto consacrato a sacerdote…
Già, ma perfino la Luna pur bella non è perfetta: e, così, neppure le Donne.  È questa, quindi, la colpa di Otello: aver peccato non tanto di gelosia, quanto d’idealizzazione?  Quel che tutti vedevano era la diversità fra il garbato candore della fanciulla ed la negra barbarie del condottiero – proprio per questo, ci rivela il Coro, l’Otello di Lo Cascio non avrà la pelle scura: ché a qualsiasi uomo, indipendentemente dalla razza, avrebbe potuto occorrere un caso simile: Orlando docet. No, quel che li ha divisi è l’essere appartenenti ai due più incomunicabili degli universi: femminile e maschile. Nonostante quell’amore struggente, raccontato con estrema grazia nelle intense immagini, dello scambio del carteggio attraverso furtivi fazzolettini. Poi la macchinazione, il dubbio, la prova – in realtà solo un imbroglio, ma nel rispetto della più pura tradizione shakesperiana.

Non c’insegna, del resto, il Bardo, che fu del veleno istillato nell’orecchio ad uccidere il vecchio Amleto? Similmente, quel che qui Iago promette non è di far cogliere Desdemona in fragranza di reato – eventualità, del resto, che furbamente illustra con una tal dovizia di particolari scabrosi, da scatenare già la folle reazione di Otello. Quel che invece fa, giocando come il ragno che tesse la tela – immagine originaria e qui sottolineata dal cartoon proiettato alle sue spalle –, è di seguire il clinamen di dubbio-persuasione-prova, minando la credibilità del fido luogotenente-confidente fin dai tempi del loro ‘amore clandestino, mettendolo astutamente in guardia dal mostro verde della gelosia, per potergli infine esibire una ‘prova’, tanto gravida di tragiche conseguenze, quanto oggettivamente inconsistente. Ed è lì che perde il senno, Otello, impersonato da un Vincenzo Pirrotta, che, lì come altrove, suscita applausi a scena aperta. Non da meno Desdemona/Valentina Cenni, eterea figura che, nella fulgida cascata di riccioli ramati – alla Brave disneyana -, interpreta col giusto mix di trasporto e misura la paladina – qui dell’Onestà, altro cruccio di William -, di cui Lo Cascio enfatizza la cifra di casta guerriera. E’ la sola che si esprime in cristallino italiano.
Tesi interessanti, bravi gli attori, regia ed immagini suggestive; sì, ma forse un po’ troppo didascalico: almeno per un pubblico avvezzo a questi testi e alle loro pur complicate e sinuose simbologie e siderali rimandi.

Visto al Piccolo Teatro di Milano il 20 gennaio 2015

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