Teatro, Teatro recensione — 20/05/2022 at 10:58

Il monologo di ieri e di oggi: due visioni a confronto

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RUMOR(S)CENA – MILANO – Il monologo esiste da sempre, come momento clou di una tragedia o di una commedia: spesso si direbbe scritto apposta per suscitare l’applauso a scena aperta da tributarsi al primo attore; così come, nell’opera lirica, la romanza per il tenore. Nell’avanspettacolo, il monologo poteva avere una connotazione comica, o addirittura satirica, come nelle indimenticabili invenzioni di Ettore Petrolini. Ma, decaduto il concetto di primo attore – ormai retaggio di un tempo passato – il monologo è andato modificandosi nel tempo. Da circa tre decenni ha ritrovato una nuova identità e forma nel teatro di narrazione, in quel genere di cui sono stati pionieri Marco Baliani e Marco Paolini, dai cui lombi sono discesi tanti altri artisti, spesso creatori di un loro personale registro espressivo.

Non è questa la sede per un’analisi ad ampio raggio delle modalità in cui il monologo è venuto articolandosi negli ultimi decenni, ma prima di riferire su due monologhi visti di recente, mi limiterei a una personale riflessione su due spettacoli di maggior successo degli artisti sopra citati, ambedue connotati da una certa distanza del narratore dalla storia narrata. In Kohlhaas, Baliani non partecipa emotivamente alle avversità in cui incorre il protagonista; la sua abilità sta nella capacità, seduto su una sedia (unico elemento scenografico), di ricreare un ambiente naturale e umano che avvolge e cattura chi lo ascolta; ma Marco non si identifica mai nello sfortunato mercante di cavalli. Lo stesso, in forma diversa, credo si possa sostenere per Paolini che, già nei suoi Album, e poi nel Racconto del Vajont, snocciola le sue storie nello stile di uno che sta concionando con i compagni d’osteria, con geniali ammiccamenti coi quali cattura il suo uditorio.

Ivana Monti Una vita che sto qui crediti foto Francesco Bozzo

Rispetto a queste modalità, l’impostazione dei due monologhi visti, a distanza di un giorno, in quel luogo ormai labirintico che è il teatro Parenti di Milano, è diversa. Una vita che sto qui, scritto da Roberta Skerl, è interpretato da una superba Ivana Monti. Della sua giovanile, insinuante bellezza il mio ricordo risale agli anni Settanta, quando Ivana veste i panni della malvagia Regana del Re Lear strehleriano, o di una gelida Ljudmila nella truce tragedia di Gorkij, Vassa Železnova, con la regia di Lamberto Puggelli. Da allora i suoi ruoli teatrali hanno spaziato dal teatro brillante ai più arditi testi contemporanei, oltre che alla televisione e al cinema. In questa messa in scena, senza aver alcuna remora nel mostrare i segni dell’età, arriva addirittura a invecchiarsi, trasformandosi nella scorbutica, imbolsita ottantenne Adriana, che resiste all’ingiunzione di lasciare l’appartamento popolare nella periferia di Milano, al Gratosoglio, dove vive da oltre mezzo secolo. Il suo monologo è costruito come una sorta di flusso di memoria: si rivolge ora al pubblico, ora agli arredi di scena, agli oggetti e agli indumenti che tira fuori dagli scatoloni, che innescano ricordi di un passato non felice. Adriana/Ivana li rievoca intrecciandoli con la storia di Milano, con ricordi del fascismo, vissuto da piccolissima e nei racconti del padre; poi la guerra, gli entusiasmi per la ricostruzione della Scala; fino a un’appassionata denuncia del degrado urbano e della droga, che ha ucciso dei ragazzi che vivevano nel suo stesso cortile.

Ivana Monti Una vita che sto qui crediti foto Francesco Bozzo

Per i molti studenti presenti in platea, lo spettacolo è stato anche una sorta di lezione di storia e di sociologia milanese; per tutti, l’evocazione di un recente passato, restituito attraverso lo sguardo di chi lo ha vissuto, che Ivana restituisce non solo con la propria abilità attorale, ma anche con autentica partecipazione, azzerando la distanza emotiva fra interprete e personaggio. Pur su un testo di tutt’altra natura, si riscontra una modalità interpretativa non molto diversa nella cifra espressiva di Roberto Anglisani nel Giobbe, visto il giorno successivo, sempre al Parenti.

Giobbe Roberto Anglisani

L’autore, Joseph Roth (che nella didascalia autografa di un suo schizzo a penna si definisce “cattivo, sbronzo, ma in gamba”), non è solo uno dei più lucidi interpreti della finis Austriae, ma anche del mondo degli shtetl dell’Europa orientale, dove si era radicata da secoli la cultura askenazita, la lingua yiddish, la musica klezmer: un universo che sarebbe stato cancellato definitivamente da lì a pochi anni. Fra le opere che affrontano questo tema, Giobbe. Romanzo di un uomo semplice è la più coinvolgente. Ridurre a una narrazione di poco più di un’ora un tomo di quasi 200 pagine era un’impresa ardita, quasi disperata. Ma Anglisani, formato secondo il metodo Stanislavskij alla Comuna Baires, e successivamente dall’incontro con Baliani, ne viene a capo.

Seduto su una sedia nella minuscola sala Treno Blu, ci racconta le angustie di Mendel Singer, ebreo osservante, “stupido maestro di stupidi bambini”. Le sue sventure, che Roth paragona a quelle occorse al Giobbe biblico, alla sua capacità di sopportare ogni disgrazia cui Iddio lo sottopone, hanno la struttura di una parabola. Il suo lieto fine – in effetti annunciato e prevedibile – ha una dimensione quasi miracolistica, ma non estranea alla poetica di Roth: basti pensare alla sua Leggenda del santo bevitore.Malgrado l’origine cartacea del testo, Anglisani lo restituisce superando le modalità consolidate del teatro di narrazione. La storia è raccontata in terza persona eppure, a mano a mano che la vicenda si sviluppa, l’identificazione di Roberto con Mendel si fa più evidente, fino a fargli scorrere qualche lacrima. Anche sul viso di Ivana, alla fine dello spettacolo erano visibili i segni di una sincera, commossa partecipazione civile. Nelle accademie di arte drammatica credo si continui a spiegare che è importante mantenere un distacco critico dai personaggi interpretati. Ho l’impressione che due ottimi attori, Ivana Monti e Roberto Anglisani, abbiano trasgredito questa regola, ognuno a suo modo. E hanno fatto bene.

Visti nella Sala AcomeA, il 30 aprile 2022, e nella Sala Treno Blu, il 1° maggio 2022, ambedue al Teatro Franco Parenti di Milano

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