Teatro, Teatro recensione — 20/05/2015 at 21:41

Il cannibalismo emotivo di coppia: scene di vita surreali

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MILANO –Chi ha paura di Virginia Woolf?” ovvero del cannibalismo emotivo di coppia – che serpeggia sotto al perbenismo delle convenzioni sociali. La tematica, è vero, risulta forse un po’ più legata alle dinamiche emancipatorie di quei favolosi anni “60, in cui le donne, stanche di vedersi stereotipate nel cliché di ‘figlie di’ o ‘mogli di’, iniziavano a riconoscere a se stesse il diritto a un’autodeterminazione differente. La protagonista, ad esempio, Martha, è laureata, anche se al titolo accademico non ha poi fatto seguito una vita professionale autonoma. Forse i tempi ancora non erano maturi per l’effettiva emancipazione, che sarebbe esplosa solo alla fine di quel decennio – il testo di Albee debuttò a Hollywood nel 1962 -; così alle signore e signorine dell’epoca spesso non restava altro modo per rivendicare il proprio diritto di esistenza che rendersi ‘controverse’ – Madame Bovary e l’isteria femminile ottocentesca docabant. Ed ecco che Martha, la protagonista, figlia del rettore dell’università e poi moglie del preside della facoltà di storia, lo affoga nell’alcool, il suo disagio di donna irrealizzata. La riscrittura registica di Arturo Cirillo – complici anche quattro interpreti assolutamente capaci di d’incarnare prototipi così archetipici da rimbalzarci fino al cuore dell’umano più bieco nella sua fragilità –, sa accompagnarci per mano oltre questo pretesto. Ci vengono dischiusi abissi così visceralmente universali e al tempo stesso intimi da trascendere una collocazione cronologica evidente a partire fin dagli arredi di scena.

foto di Diego Steccanella
foto di Diego Steccanella

La storia è quella di una non più giovanissima coppia borghese, colta e benestante – Martha Milvia Marigliano, appunto e George/Arturo Cirillo -, che riceve la visita del giovane e brillante professore di biologia (Edoardo Ribatto) e della sua giovane moglie (Valentina Picello). “Papà ha detto di essere gentile con loro”, c’informa la padrona di casa, ricordandolo al marito. Una visita di circostanza, quindi. Una bomba ad orologeria! Se, infatti George viene subito sminuito di fronte agli ospiti in quanto uomo senza ambizioni e senza qualità, del giovane cattedratico Martha sottolinea le potenzialità e virtù, quasi più per rintuzzare l’ambiguo gioco col marito, che per una reale infatuazione. “Il tuo è un potenziale formidabile”, confessa al giovane professore a chiosa dell’ostentata seduzione: “Ma l’esecuzione è maldestra”, lo liquida.
E’ un crescendo ironico e surreale, un po’ “Casa Vianello” – ma con toni volutamente più smorzati, nonostante la ferocia dei dialoghi – e un po’ “La Cantatrice Calva” – come non pensare alla pièce di Ionesco, di fronte alla descrizione del ‘piccolo sciagurato’? Nell’apprendere che il ragazzo ha “i capelli azzurri e gli occhi biondi”, veniamo presi dallo stesso straniamento, che coglie di fronte all’inquietante dettaglio: “Mia figlia ha un occhio bianco e uno rosso”, dice, la Signora Martin, a proposito della piccola Alice. E gli ‘occhietti rossi – da topo’ sono anche quelli del padre di Martha, che se accusa il marito di codardia nello sparlar del suocero in sua assenza, poi lo riconosce anche lei: “Sì, è vero: hai gli occhi rossi, perché piangi continuamente. Anch’io piango continuamente, ma di nascosto. Anche George”. Quanto ci acchiappa allo stomaco, il dettaglio delle lacrime, che vengon poi congelate in ghiaccio; specie dopo aver assistito per tutto il tempo ai fiumi di alcool e ghiaccio, in cui i quattro protagonisti tracannano, vomitandosi addosso reciprocamente brandelli di vite surreali, giocate – “ancora un giochino e poi andremo tutti a dormire”, rilancia George – in meccanismi feroci ed autodistruttivi. E tutto solo per non ammettere a se stessi la verità: quella fragilità che fa cercar nell’altro il proprio porto sicuro – “George, l’unico uomo che abbia mai amato”, deve ad un certo punto ammettere Martha: “L’unico venuto per restare” e quello che, nonostante gli scoppi omicidi dell’asfissia di coppia, è il solo capace di tenerle la mano quando c’è buio e lei ha paura dell’orco.

foto di Diego Steccanella
foto di Diego Steccanella

Già, perché in fondo è solo questo: quella ‘Virginia Woolf’ del motivetto sciocco che intonano, a tratti, a ricordare il divertissement della serata appena conclusa, che li ha fatti conoscere. ‘Woolf” come il lupo cattivo della canzoncina “Who’s Afraid of the Big Bad Wolf?” – e il riferimento esplicito alla scrittrice suicida getta un’ombra ancor più sinistra su quel matrimonio, che Martha definisce ‘cloaca’.
“Ma uno spettacolo non è solo il suo testo”: questa, la convinzione di Cirillo. “Il testo è un punto d’incontro e di partenza: come la piazza, in cui si danno appuntamento gli attori, gli scenografi… Il punto in cui convergono i pensieri e i sentimenti di tutti e che poi il regista cerca di cucinare in modo non troppo discordante”. Così Cirillo – lui stesso in scena ad interpretare un subdolamente feroce, sottilmente caustico, spiazzante, timido, fragile, modulare e mai istrionico Geoge – apparecchia un menù a base di attori altrettanto capaci di impersonare spaccati di un’umanità che non può non far sorridere per la sua grottesca inadeguatezza – ma che, al tempo stesso, non può non turbarci intimamente per la nostra stessa speculare fragilità. Così, se anche restano lontane, forse, quelle dinamiche di donne e uomini intrappolati in meccanismi sociali che sembrano non scardinabili, le ritroviamo nelle nostre stesse viscere, le medesime fobie, i rimpianti, il senso d’inadeguatezza e la paura che, al di là dell’età, ci saranno opzioni che resteranno comunque irrealizzate – quello della maternità e paternità, ad esempio, è uno snodo nevralgico che investe sia la coppia giovane (una Valentina Picello estraniata e surreale e un Edoardo Ribatto, credibile, in un ruolo dalla tensione alternata) non meno di quella plus agée (Arturo Cirillo, appunto, e una Milvia Marigliano, che offre una gran prova attorale). Così anche la scenografia si scompagina: il salotto buono ‘a pianta centrale’ si scardina in divanetti solipsistici, da cui sembrano agonizzare, quei detriti umani comunque vinti – tutti! – da una fragilità costituzionale. Uscendo di sala, restano negli occhi lo ‘sky line’ delle monocrome bottiglie di liquori, illuminate da una luce, che fa tanto “Milano da bere” e quelle tre scalette/vie di fuga da botole, illuminate per un istante soltanto, in trasparenza a ossessive tripoline/soglie di disvelamento. Ma, soprattutto, resta la morsa allo stomaco, che sempre sa offrire un teatro capace di chiamarci in causa, pur giocando a raccontare una storia, che sembra non aver a che fare con noi.

Visto al Teatro Tieffe Menotti il 19 maggio 2015 

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