Teatro, Teatro recensione — 19/05/2015 at 08:21

Sono Voci di famiglia alla cupio dissolvi…

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BUTI (Pisa) – Chi sono questi tre personaggi: una madre sola, anziana un po’ despota , un figlio lontano, assente, non si sa dove né perché, il padre morto. Sicuramente l’ambientazione scenica ricorda uno spazio geografico ma solo “interno” molto british a giudicare dagli arredi vittoriani come le pettinature ed abiti di scena. Un padre defunto a cui spesso si fa riferimento nelle mancate conversazioni fra Madre e Figlio (entrambi figure fantasmatiche), che si appalesa in gramaglie-una specie di padre zombi, forse variante edipica di Amleto?, che torna nella sua unica agnizione con micro monologo nel finale.
Chi sono, costoro? Harold Pinter è maestro di misteriose microdrammaturgie e Dario Marconcini, direttore storico del Teatro Francesco di Bartolo, ne restituisce, in scena, e da tempo (sua la regia di Silence sempre a firma di Pinter, del 2014), l’immaterialità, il fascino tutto o quasi affidato al flatus voci quanto le nebbie che si respirano fuori e dentro un teatro aggrappato a quel Monte Serra colle sue antenne televisive, di qua e di là dal Monte verso il mare insomma l’hic et nunc, anche location ma “esterna” della messinscena.

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Questo lavoro di Pinter, uno fra i suoi ultimi, molto complesso (poco drammaturgico in senso stretto), è stato trasmesso come radiodramma in Inghilterra nel 1981. Tradotto in forma quasi da dialogo epistolare, ma solo perché così può essere(anche) tradotto per la scena. I personaggi infatti-la madre, il figlio- raccontano come se scrivessero lettere l’una all’altro ma senza che le missive vengano recapitate dai propri scrittoi, dai propri sofà ai postini dell’altro. I due, madre e figlio, sono in scena in contemporanea mentre lei è riflessa su luce blu, lui rossa, in condensazione che da rarefatta si fa via via fortemente espressionista. E’ come se vivessero dentro salotti analoghi come sfondi ma dentro il dramma di analoghe estraneità. La madre, completamente sola, un po’ livorosa forse per la mancanza del figlio, il figlio che con lei non comunica affatto, dentro una incestuosità originaria- ma non dialettica ove racconta- scrive? alla madre? di coinquilini alquanto ambigui al limite della sordidità. La madre che si relaziona coi fantasmi del marito e del figlio.

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Un figlio che si confronta con una ambientazione dove la madre è esclusa mentre altre figure sia femminili che maschili rasentano una moralità di finzione mista a dissolutezza. Il figlio è comunque il protagonista (Emanuele Carucci Viterbi, molto convincente nella sua diafana perversità) che sussurra e a volte cerca di comunicare risvolti di storie ad intreccio di cui è connivente e colluso, con figure appena accennate- bambine prostitute figlie, madri/amanti come affittacamere ambigue, uomini di legge con tendenze omosessuali represse.
Il finale dissolve su musiche di Purcell , Dido et Aeneas. Insomma alla cupio dissolvi. Vedi Pinter.

Regia di Dario Marconcini
Traduzione da Harold Pinter di Alessandra Serra
Con : Emanuele Carucci Viterbi, Giovanna Daddi e Dario Marconcini
Scene e luci di Riccardo Gargiulo e Valeria Foti
Costumi Di Giovanna Daddi

Visto il 23 aprile Teatro Francesco di Bartolo a Buti ( Pisa)

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