Recensioni — 19/02/2022 at 11:15

M il figlio del secolo: due sguardi a confronto

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RUMOR(S)CENA – MILANO – È pervaso di un’ironia che esplode in sarcasmo, giocata tra accenti grotteschi e risate beffarde M Il figlio del secolo, lo spettacolo che Massimo Popolizio ha realizzato con la collaborazione alla drammaturgia di Lorenzo Pavolini partendo dall’omonimo romanzo di Antonio Scurati, Premio Strega nel 2019.

In 31 quadri, ciascuno definito da un diverso titolo, scorre sul palco l’irresistibile ascesa di Benito Mussolini al potere, a partire dal 1919 dopo la sconfitta alle elezioni fino ad arrivare al discorso in Parlamento del 3 gennaio 1925 e al dilagare dello squadrismo dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti del 10 giugno 1924, a due anni dalla marcia su Roma e dall’incarico di governo conferitogli dal re Vittorio Emanuele III il 30 ottobre 1922, che aprì le porte del Parlamento al Partito Nazionale Fascista.

È una denuncia storica, quella che prende forma sotto gli occhi degli spettatori, ma anche uno sguardo impietoso sul nostro presente che di quel passato si nutre e perciò lo sberleffo feroce si intride di amarezza e di inquietudine.

C’è speranza nel futuro? O quel meccanismo perverso e al tempo stesso banale, fatto di errori, omissioni, viltà e superficialità, può ripresentarsi e affermarsi? Questo l’interrogativo che guarda al presente con apprensione e urgenza critica.

Popolizio, in veste di regista e attore, ha riservato per sé la parte di Benito “il teatrante”, incarnandone il volto di istrione e guitto, capace di mille metamorfosi, plasmate sugli umori popolari. A Tommaso Ragno affida il ruolo di “Benito Mussolini” con battute pronunciate in terza persona, senza proporne il ritratto mimetico dell’iconografia tradizionale, ma lasciando all’attore le sue fattezze a evidenziare il rischio sempre presente di una “reincarnazione” del Duce nell’oggi. Entrambi calzano a tratti sul volto una grottesca maschera di juta, che richiama quelle indossate dal boia durante le esecuzioni capitali.

Al loro fianco si muove una formazione caleidoscopica di figure diverse, all’interno della quale i 16 attori (di ogni età, dai più giovani ai più anziani, tutti meritevoli di lode) interpretano più personaggi, con in testa alla schiera femminile la Margherita Sarfatti di Sandra Toffolatti: (in ordine di locandina) Paolo Musio, Raffaele Esposito, Michele Nani, Tommaso Cardarelli, Alberto Onofrietti, Riccardo Bocci, Diana Manea, Michele Dell’Utri, Flavio Francucci, Francesco Giordano; Gabriele Brunelli, Giulia Heathfield Di Renzi, Francesca Osso, Antonio Perretta, Beatrice Verzotti.

Popolizio,Ragno_photo©MasiarPasquali

I dialoghi ricreati usando le parole del libro formano una drammaturgia sostenuta e completata dalla proiezione di immagini d’archivio (curata da Riccardo Frati), dove però non compare mai Mussolini in persona, che si intrecciano con un variegato repertorio di musiche: brani d’epoca, valzer, tanghi, musica tecno, oltre che rumori e suoni (mixati da Alessandro Saviozzi). Cori e canzoni si accompagnano a passi danzati (movimenti diretti da Antonio Bertusi) come in un musical brechtiano, dove lo straniamento aggiunge incisività ai contenuti. La scenografia mobile di Marco Rossi, di icastica evocatività, è pensata in funzione dei molti cambi di scena ed è illuminata dal disegno luci di Luigi Biondi, mentre i costumi d’epoca di Gianluca Sbicca contestualizzano la narrazione evitando un’attualizzazione che risulterebbe fittizia ed enfatica.

Tra Cabaret e Circo, la dimensione di “spettacolo nello spettacolo” dilata significati e inquietudini e col suo ritmo serrato trascina gli spettatori in un vortice di emozioni e pensieri.

Caterina Barone

Una produzione Piccolo Teatro di Milano, Teatro di Roma e Luce Cinecittà.

Visto al Piccolo Teatro Strehler, Milano, domenica 13 febbraio 2022

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RUMOR(S)CENA – MILANO _ So di essere fuori dal coro, ma non ho trovato convincente M. il figlio del secolo, frutto dello sforzo produttivo congiunto del Piccolo di Milano e del Teatro di Roma. E non voglio limitarmi a smaltire la delusione con una scrollata di spalle. Illustrare le vicende dell’ascesa di Mussolini a una generazione che non ha più modo di farsi raccontare il fascismo da che l’aveva vissuto in prima persona (i genitori, i nonni), aveva una meritoria ragion d’essere. Il progetto di ridurre il ponderoso romanzo (o saggio) di oltre 800 pagine, M. il figlio del secolo, pur materiato di figure di indubbia rilevanza drammaturgica, era però tale da far tremare le vene e i polsi. C’erano a disposizione i mezzi di due prestigiose istituzioni teatrali, lo smisurato patrimonio documentario dello storico Istituto Luce, una squadra di attori di sperimentata professionalità (compresi alcuni valorosi giovani, freschi di diploma). Ma il risultato non ha colto l’obiettivo. Prima di esprimere osservazioni più specificamente estetiche, premetterei alcune considerazioni, forse a margine, da antico uomo di scuola qual sono. Dato il tema, immagino che molti studenti, sollecitati dai loro insegnanti, andranno a vedere M il figlio del secolo, proprio per il motivo sopra accennato, tanto più che l’attuale situazione sanitaria non credo abbia consentito di approfondire una pagina della nostra storia che, anche in tempi normali, non sempre si riesce a trattare in classe.

Per le prime due ore quei ragazzi vedranno sulla scena personaggi per lo più ridotti a macchietta: un D’Annunzio poeta vate orbo, caricatura di se stesso; un quadrunviro (Italo Balbo), altrettanto ottuso e ridicolo; una donna dal nome meno conosciuto (Margherita Sarfatti) dedita a restaurare culturalmente il Duce, a imporgli l’uso delle ghette, ad accoglierne gli slanci erotici.

Massimo Popolizio_photo©MasiarPasquali

Solo nell’ultima parte potranno acquisire la consapevolezza che quella farsa, nel volgere di meno di vent’anni, avrebbe generato immani tragedie.

Le vicende che ci restituiscono la figura di Giacomo Matteotti hanno, in effetti, una notevole, diversa efficacia (da segnalare la misurata ma appassionante interpretazione di Raffaele Esposito); però arrivano dopo quasi due ore. Se i tempi di attenzione di un adulto sono già limitati, per la generazione di nativi digitali sono ancora più risicati. Temo che quelle scene, illuminanti, arrivino troppo tardi, e nella memoria dei giovani spettatori rimarranno principalmente le figure da burletta della parte più cospicua dello spettacolo.

Un’occasione sprecata, per un’operazione che poteva avere una diversa valenza sul piano educativo e didattico. Ma, anche prescindendo da queste valutazioni etiche e sociali, ritengo che la drammaturgia e la regia dello spettacolo offrano il fianco a diverse critiche.

Il registro burlesco che, come si è detto, informa tutta la prima parte dello spettacolo, obbliga la maggior parte degli attori a una recitazione sopra le righe: una modalità espressiva che, alla lunga, mostra la corda.

La presenza delle machinae ronconiane, trasparente omaggio di Massimo Popolizio al suo Maestro (al suo gusto da ingegnere rinascimentale), non ne hanno però la fascinosa suggestione.

Quanto all’idea di far parlare i personaggi in terza persona (espediente che in Lehman Trilogy aveva una sua suggestiva ragion d’essere) qui diventa un vezzo, e rende addirittura problematica l’identificazione dei personaggi: all’inizio, dopo una breve apparizione di Mussolini/Popolizio, quando ascoltiamo Tommaso Ragno che vi si riferisce in terza persona, capiamo che si tratta ancora di lui solo quando dice di tornare a casa, da Rachele.

photo©MasiarPasquali

Le note di regia spiegano la scelta di far interpretare Mussolini da due diversi attori, allo scopo di sottolineare due suoi differenti aspetti: il teatrante e il politico: una lettura discutibile, anche alla luce delle ben più numerose, storiche contraddizioni insite nel personaggio.

Si sa che in teatro vale tutto: basta accettarne la convenzione (ai tempi di Shakespeare, Giulietta era interpretata da un maschio); ma sfugge ugualmente il motivo profondo per affidare al peraltro ottimo Tommaso Ragno l’interpretazione di una figura iconicamente così lontana dal suo tipo fisico. Ciò contrasta anche con la complessiva cifra espressiva non realistica della messa in scena. Ma cosa c’entrano, allora, i costumi di Gianluca Sbicca, accuratamente fedeli alle mode e ai modi di vestire, in quello scorcio di secolo, delle varie classi sociali?

Se, come appare evidente, fin dalla scansione didascalica delle scene, il lavoro è informato alla poetica brechtiana, vien naturale un confronto con la feroce allegoria di Brecht sull’ascesa di Hitler, proiettato sulla figura immaginaria del gangster Arturo Ui, in lotta per il controllo del racket dei cavolfiori a Chicago: una rappresentazione satirica che ritrae personaggi i cui nomi riecheggiano quelli dei protagonisti della storia, suggellata catarticamente dal terribile, sinistro ammonimento finale:

“Questo mostro stava, una volta, per governare il mondo! I popoli lo spensero, ma ora non cantiamo vittoria troppo presto: il grembo da cui nacque è ancora fecondo”.

M il figlio del secolo non si propone affatto come un’allegoria, ma sono gli stessi personaggi storici a essere presentati in chiave farsesca- Solo con l’assassinio di Matteotti, col mutare del registro espressivo, si rende esplicita la minaccia costituita da quei personaggi da operetta, che per quasi due ore abbiamo visto animare la scena.

E poi, perché tacere dell’identità ebraica di Margherita Sarfatti, elemento non secondario dello strabismo mentale di Mussolini?

Perché utilizzare, senza dichiararlo, la citazione del Nerone (il reiterato, incongruo “bravo!” dell’uditorio prono al tiranno), una satira coraggiosamente portata anche sullo schermo, in pieno regime, dal grande Ettore Petrolini?

Perché buttar via, con indifferenza, una delle più geniali e icastiche invenzioni di Tacito (“Dove fanno un deserto, lo chiamano pace”)?

Approfondire questi – ed altri – elementi avrebbe ulteriormente allungato e appesantito lo spettacolo (e non era proprio il caso); ma ciò dimostra quanto sia stato temerario e arrischiato trasferire sul palcoscenico un celebrato e premiato best seller, che poteva felicemente proseguire il cammino del suo successo sulla pagina stampata.

Visto al Teatro Strehler di Milano il 5 febbraio 2022

Claudio Facchinelli

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