Teatro, Teatrorecensione — 18/10/2012 at 16:56

Un crocefisso sul fondale di una vita dove l’uomo è solo in un mondo che non lo vuole

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Risale al 1992 Tre studi per un crocefisso di Danio Manfredini, ispirato all’opera omonima di Francis Bacon. Rivederlo  ora detiene la stessa  potenza espressiva e drammaturgica originale. L’attore interpreta tre personaggi in altrettanti monologhi, esaltando, e forse rinnovando, quanto di più attuale ci sia al giorno d’oggi: solitudine, marginalità, sofferenza, disagio. Tutte le altre variabili dell’esistenza umana dove l’uomo si percepisce come l’unico essere vivente sulla faccia della Terra. Avevamo incontrato Manfredini nel 2011 a Trento, ospite della stagione di CentroTeatro al Teatro Cuminetti. Lo abbiamo rivisto nel 2012 al Teatro delle Ariette per A Teatro nelle Case, il festival organizzato da Paola Berselli e Stefano Pasquini, nel loro piccolo teatro costruito in mezzo a dolci pendii tra boschi e campi di grano nel comune di Castello di Serravalle. Un’oasi naturale dove la cultura cresce e viene “coltivata” con passione e tanta generosità. Tre studi per un crocefisso è tornato a rivivere senza età, inossidabile, uno spettacolo collaudato quanto inedito al suo apparire in scena. Danio Manfredini è una presenza quasi ieratica nel suo apparire minuscolo sul fondale. Un piccolo uomo dimesso dal passo incerto.

La voce biascicante farfuglia sotto tono come per non disturbare quell’alone strano e magico che avvolge la scena fatta di sedie e un tavolino dove consumare un piatto di minestra, ascoltare una radiolina che emana musica. Unico segno proveniente da una realtà esterna. Lui è un uomo affetto da un disagio mentale, un tempo sarebbe stato definito come un “matto”, un malato ricoverato in un reparto psichiatrico. Basta un piccolo gesto, un dettaglio della sua fisionomia, capace di dipingere nell’aria il corrispondente pensiero. Emana un senso di tristezza, solitudine, vacuità, per una vita ai confini di una società  capace di emarginarti senza tanti scrupoli. La sua sofferenza mentale diventa, per una sorta di traslazione misteriosa, forma ed espressione poetica, in cui l’atmosfera rarefatta contribuisce a rendere ancor più sublimata la narrazione dell’attore. Un uomo dimesso come se ne vedano tanti per le strade (in mancanza di strutture adeguate), segno che Danio Manfredini segue un suo progetto artistico e sociale ben preciso. L’attore ha un’esperienza professionale nel settore del disagio psichico con l’ausilio della pittura e dell’arte terapia. Il primo studio è un quadro vivente dove le suggestioni si rifrangono nel nero delle quinte e del fondale dove appare un minuscolo crocefisso. Icona per simboleggiare il dolore vissuto. L’umanità alla deriva si confessa in questo suo monologo, dove l’attenzione e il silenzio del pubblico, è prerogativa indispensabile per partecipare non da spettatore qualunque, quanto, invece, una presenza attiva, solidale, empatica che ti conduce a lui, alla sua storia, a quella dell’uomo stesso.

Non c’è finzione né artificio ma solo una sincera e profonda testimonianza di come sia difficile vivere senza poter sentirsi realmente vivi. Il cambio di scena e del personaggio avviene in penombra, dietro una quinta nera da dove traspare una luce fioca e rossa. L’attore rivela il gesto misurato, quasi minimalista, ma non è solo un mutamento di abito: c’è una trasformazione epidermica e psicologica. Entra un transessuale, si chiama Elvira, richiama il personaggio del film di Fassbinder Un anno con tredici lune. C’è tutta la sofferenza unita ad una solitudine che emana da una voce che non ha tonalità espressive. La sua volontà è dettata dal desiderio di porre fine ad una esistenza per cui non vale più la pena sopportare. Le lacrime sono parole distillate che si mescolano a piccoli sorsi di liquore per ottenebrare il suo pensiero. Le capsule di un farmaco aiuteranno la sua condanna mortale. Manfredini ti conduce nelle viscere dove albergano emozioni soffocate, sentimenti finiti nell’oblio, sussulti che richiamano il desiderio di amare. Ma la realtà è diversa, sembra dire l’artista, come se amare significasse solo ciò che non si può avere. Vittima e carnefice di se stessi.

Il silenzio pare assordante. È quello delle coscienze mute di fronte all’incarnazione perfetta e struggente dei suoi tre personaggi. Il terzo è un uomo, straniero, emigrato, vagabondo. L’ispirazione viene da Bernard-Marie Koltès La notte poco prima della foresta. Esprime anche lui una sofferenza dolente e rabbiosa quanto soffocata. Non c’è nessuno nel suo mondo. Un reietto. Non li resta che esprimere la sua angoscia attraverso la danza. Non è espressione di gioia e di felicità ma il linguaggio a lui più consono per raccontare (a noi) la sua condizione di emarginato. Cerca di reagire così e lo fa creando un assolo di elevata potenza espressiva. Le punte dei suoi piedi si muovono sulla musica sublime di Bach. Quasi sovrumana tanto da avvicinarsi all’Infinito. Nessuna traccia del minuscolo crocefisso apparso all’inizio sul fondale nero. Svanito nel nulla di un buio in cui Danio Manfredini si immerge e si congeda. Fuori dal Teatro delle Ariette è notte. Piccoli bagliori luccicanti fendono l’oscurità dove si ha l’impressione che qualcosa si muova: come il baluginare di un’ombra che si dilegua velocemente.

Tre studi di e con Danio Manfredini

 Teatro delle Ariette Castello di Serravalle (Bologna) visto il 7 ottobre 2012

 

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