Teatro, Teatrorecensione — 16/03/2013 at 10:32

“Susn”, ovvero storia di un’infelice

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Cinque decenni della vita di una donna: gli stessi occhi languidi e vacui; lo stesso sguardo perso della prostituta seduta al tavolo di un bar, in solitaria compagnia di un clochard anch’egli assorto in se stesso, dell’”Absinthe” di Degas .

Si tratta di Susn, protagonista dell’omonimo testo di Herbert Acternbusch, autore contemporaneo bavarese che affonda la penna nel vivo della società tedesca tutta. A trascrivere sulla scena il frutto di questa curiosa forma di composizione drammatica, nata da un collage di cinque monologhi che, nell’amalgama finale, si ricompongono perfettamente, Thomas Ostermeier.

 E si incastra proprio bene, nella bella stagione dei Teatri di Vita bolognesi dove è andato in scena di recente, il lavoro del regista tedesco, indiscusso maestro della scena internazionale.

Susn: ovvero storia di un’infelice. É un progressivo disfacimento per tappe di una vita, l’oggetto di questo spettacolo. In uno squallido interno appena accennato da una toilette, una scrivania, due sedie, e un videogioco da bar che si illumina muto e stridente, si consuma, scandito nei tempi da una scritta rossa che recita 10 Jahre später (dieci anni dopo), il dramma comune di una figura femminile colta in cinque momenti della sua esistenza. Una donna che proprio al comune vuole sfuggire, che rifiuta l’insostenibile perbenismo di una società bavarese bigotta e retrograda, sviluppando, per contrappasso, una relazione morbosa con la sessualità.

A delimitare come quinte lo spazio scenico, ritagliato, rispetto all’ampiezza della sala, per sottolineare ancora di più il richiamo al set già ampiamente dichiarato da una telecamera a vista, pannelli/schermi cinematografici che proiettano immagini di lande provinciali, di palme che al vento, di una chiesa, di ombre maschili che violano il corpo di Susn.

Un rapporto tra il filmico e il teatrale sottile, preciso.

Il teatro, e sembra quasi tautologico sottolinearlo, rintraccia e impone la potenza della presenza fisica. Giocandosi le carte dei sensi, coinvolge non solo vista e udito ma anche olfatto e gusto (gli spettatori sono accolti dall’attrice che offre stuzzichini di salumi!), inglobando nella rete sinestetica la ridotta comunità che concelebra il rito della messa in scena. Di fronte alla sinteticità di un mezzo in cui la vita raccontata è costretta a schiacciarsi in un tempo e uno spazio necessariamente limitati, e di fronte a una drammaturgia dell’interiorità difficilmente risolvibile in termini scenici in quanto priva d’azione – ne sanno qualcosa quasi tutti i registi del ‘900 – Ostermeier introduce l’immagine cinematografica. Immagine che, da un lato, per la sua natura permeabile e pervasiva può tenere dentro molto di più, contribuendo a immergere quello che si vede accadere in scena in una maggiore concretezza ambientale, sebbene solo suggerita, e dall’altro, conferma e amplifica la liricità dello psicologismo di Susn.

Ecco dunque che, mentre Susn esplode in una confessione non richiesta, mentre rievoca le ragioni che l’hanno spinta a un tradimento voluto in quanto banco di prova di una femminilità ignorata nel disperato tentativo di individuare, nell’atto sessuale, l’estremismo di sensazioni che generano immaginazioni e allucinazioni esotiche, si moltiplicano sullo schermo palme che oscillano al vento.

Susn è Brigitte Hobmeier: attrice notevolissima, neanche quarantenne, nota in Germania soprattutto per i suoi impegni cinematografici. Un’interprete che lavora per sottrazione e per minuzie, comprimendo la dilagante interiorità del personaggio in una partitura poco esuberante, rigorosa, minimale. La bellezza edenica, il viso lattiginoso e i folti capelli rossi si adattano ogni volta al suo abitare con disinvoltura le diverse stagioni della vita di Susn. Un trasformismo tutto investito nella voce, nella capacità di gestire lo strumento vocale a proprio piacimento, senza mai rinunciare a porgere le parole con grande piacevolezza, con un tedesco bellissimo, in cui si mescolano le schioccanti consonanti gutturali e l’infinita dolcezza delle labiali.

Eccola, vispa fanciulla con gonna al ginocchio, dolcevita rosa pallido e calzettoni bianchi, seduta a un confessionale che si fa specchiera, in cui ad ascoltare i suoi turbamenti erotici adolescenziali, insieme a un uomo che veste con un rapido colletto bianco i panni di prete, lei stessa, in un rapporto di confidenza diretto col pubblico favorito in primo grado da una proiezione del suo volto sullo schermo sul fondo e in secondo grado dallo stesso specchio che ne rifrange l’immagine mentre lei è di spalle.
La si osservi, poco dopo, pudica, nei panni seminudi di una giovane ormai lontana da casa alla ricerca di un futuro lontano dalla asfissiante provincia. Sullo schermo, proiezioni delle sue turbe sessuali, inquietante e affollata orgia di cui lei è vittima. O regina.

Eccola, finalmente, donna pienamente adulta con una sottoveste delicata e tacchi a spillo male allacciati alla caviglia. Vacillante nelle vesti discinte da moglie infelice, sensuale e disperata: l’aspetto di quelle prostitute prosciugate, perse nel vuoto di una malinconia insanabile eppure ancora belle. Lo stesso sguardo svanito della prostituta seduta al tavolo dell’Absinthe di Degas, appunto.

Prosciugata dal marito, in questo caso; una figura maschile perennemente in scena, opprimente, interpretata da Edmund Telgenkamper. Uno scrittore che le ha rubato la vita negli anni, attingendo avidamente alla sua inquieta personalità per farne materiale letterario da plasmare, mentre scartava la femminilità appassionata della compagna, riducendola a corpo insaziato.  Le spalline della sottana scivolano facilmente giù offrendole, più che un’occasione di seduzione di un uomo chiaramente impassibile ancora intento a battere i tasti della sua macchina da scrivere, un pretesto per compiere un’azione d’appoggio, che le consenta di associare la frustrazione denunciata a parole a un gesto snervante di chiusura e di autoprotezione da rinegoziare ogni volta.

La ritroviamo invecchiata infine. I capelli bianchi posticci di una donna neanche troppo anziana che ha affogato nell’alcool la sua vita incolore, seduta instabilmente su una tazza da bagno. Una statuetta del Cristo a farle compagnia mentre vomita la sua infelicità, ombra sgargiante di una religione e di un lessico famigliare rifuggito eppure mai del tutto rinnegato.  Finisce qui, la storia di Susn.  Ostermeier taglia il suicidio previsto dal testo. Forse perché un senso di morte è già calato, di forza, sulla scena.

 

Visto a Teatri di Vita (BO) il 18 Febbraio 2013

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