Teatro, Teatro recensione — 15/11/2019 at 08:57

Quando la Mamma ri-torna dal Povero Orfanello racconta storie di Padri scomparsi

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RUMOR(S)CENA – LA MAMMA STA TORNANDO POVERO ORFANELLO – TEATRO DI BUTI – (Pisa) – In un gioco di rimandi fra vivi e morti, in un dialogo di ora e allora e fra fantasmi, non solo hic et nunc, si trasfigura in una scrittura scenica e attoriale asciutta quasi allegra (si fa per dire), è andato in scena in prima nazionale il nuovo lavoro del Teatro di Buti: La mamma sta tornando povero orfanello per la regia di Dario Marconcini in collaborazione con Stefano Geraci. Perché poi torna La mamma, o meglio ri- torna dal Povero orfanello. È notizia di questi giorni che la senatrice Liliana Segre sopravvissuta all’Olocausto all’età di soli 14 anni, e oggi novantenne, le è stata assegnata una scorta di due carabinieri a Milano (la città in cui risiede è stato esposto uno striscione di Forza Nuova contro di lei). Le continue minacce ricevute sui social e on line hanno fatto decidere al comitato per l’ordine e la sicurezza guidato dal prefetto di tutelarla. Oggi è ancora più necessario testimoniare e raccontare per rendere giustizia, a chi ancora deve lottare contro il razzismo e l’antisemitismo, fenomeni così dilaganti nel nostro Paese e in Europa dove la memoria è corta e gli strumenti di diffusione del mainstream passano da canali non controllati da chi ne dovrebbe avere facoltà e soprattutto dovere deontologico.

 

 


Il testo onirico e minimalista, da cui è tratto il lavoro La mamma sta tornando povero orfanello, è dello scrittore e drammaturgo Jean-Claude Grumberg (scritto nel 1974), francese ottantenne, rappresentato in tutto il mondo nonché sceneggiatore, fra gli altri di Truffaut e Costa Gavras.Una scrittura quasi giocosa ma di memorie forti, ingannevoli, registrata a più livelli semantici e spazio-temporali da flusso di coscienza, dove passato e presente si intrecciano come accade nel guazzabuglio rappresentato dal funzionamento della nostra mente che nessuna mindfulness può governare. È come scritto e pensato fra veglia e sonno, fra Borges e Antonio Tabucchi di Requiem alla ricerca di Padri scomparsi o solo ricompresi dentro le memorie anche letterarie. O come in Antonio Moresco col suo doppio de La Lucina e Divorzio tardivo di Yehoshua coi suoi personaggi virati al femminile di memorie tenere dell’infanzia ma insieme aspre e dure. La traduzione del testo di Grumberg è di Giacoma Limetani, romana, traduttrice narratrice saggista, studiosa delle tradizioni e del pensiero ebraico recentemente scomparsa, che aveva affidato tre anni or sono a Stefano Geraci questo testo da lei tradotto.

 

La messa in scena, affatto semplice da trattare, è di una testualità stratificata, multicodice, secondo uno stile da sempre dichiarato e rappresentato dalla coppia Daddi/Marconcini che in cinquant’anni di carriera (come si evince dal recente Quasi una vita, scritto per loro da Stefano Geraci), ha sempre ha cercato idee fra testi non inflazionati. Sul palco tre attori: Giovanna Daddi: la Madre che compare su sedia a dondolo come in flashback a dialogare-monologare sulla narrazione del Figlio-Dario Marconcini, a sua volta in relazione con tre personaggi-fantasmi maschili. Tre figure autoritarie (affidate a Emanuele Carucci Viterbi) ripetizioni del doppio, nel triplice ruolo di Anestesista (il Bambino ha avuto una operazione legata-negata, alla sua crescita), il Direttore della casa di riposo, quella della Madre (dove è ricoverata e poi morta) e quello del Padre, di cui ricorda poco, come figura evanescente dapprima solo scomparso (l’epurazione con le leggi razziali del 1938 siglate a Pisa San Rossore) e poi morto in campo di sterminio quando il bambino era ancora piccolo. Forse anche con cambi di abito nelle tre performance identitarie multiple dove nel finale è a torso nudo su cappotto nazista. Non c’è azione. Solo parola. Il Bambino-Dario siede su una panchina sul palco completamente spoglio; potrebbe essere quella del parco giochi di quando era piccolo e invocava la madre. O forse quella del Bambino-Vecchio in ospizio. Nel dialogo coi fantasmi maschili e della Madre usa un linguaggio e si atteggia proprio come un piccolo verso la Mamma e il Padre.

 

Ricorda rievoca spera che torni la festa, la domenica dell’infanzia. Un po’ Domenica del villaggio di leopardiana malinconico-giocosa matrice. Aspira chissà al ritorno dentro il grembo originario. Quello della Madre ma potrebbe anche essere l’ala severa della Morte. È vestito in pigiama come un bambino prima di andare a dormire che ricorda quello da campo di sterminio (ha in testa la kippah), o da hospice. L’affabulazione si nutre di ricordi, fantasie legate al clima dell’infanzia, con al centro le figure della Madre e del Padre. Lui l’attuale bambino di 62 anni. L’Altro il Padre il suo doppio di 42. Ma qui non c’entra la psicoanalisi perché la differenza è che questo non è un Vecchio/Bambino in delirio o in fase sonno-veglia. Quello che a quel Bambino è successo davvero.
Il padre di Grumberg è stato catturato e portato in campo di concentramento dove è morto. Nel testo e nel suo svolgimento in scena non è chiaro. L’ambiguità è assoluta. C’è traccia di una citazione autobiografica: suo padre è scomparso improvvisamente ai famigliari e poi deceduto in campo sterminio. La madre invece morirà anziana in ospizio. L’io narrante nel testo ha 62 anni mentre Grumberg oggi ha 82 anni e rivive quasi come un flashback la sua storia familiare.
La straordinaria capacità di Dario Marconcini di sapersi immedesimare – lui Anziano che si fa Bimbo in relazione con la Mamma (Giovanna Daddi) e con la complicità attoriale e versatile di Emanuele Carucci Viterbi (solida espressione del Potere nelle diverse età della vita, tutte virate al maschile) è delicata e insieme prepotente. Nel mentre una deliziosa ragazza Viviana Marino, canta canzoni in francese evocative e jiddish e con la chitarra

Visto al Teatro di Buti , l’ 8 novembre 2019

A Roma lo spettacolo sarà rappresentato in occasione della Giornata della Memoria il 27 Gennaio 2020 al Teatro Vascello

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