Teatro, Teatrorecensione — 15/11/2011 at 08:20

La parola prende vita e si diffonde, Il Regno Profondo, Grattati e Vinci, T.E.L, Vie Festival

di
Share

La parola attraverso la voce prende forma e sussistenza, diventa Verbo incarnato,  significato e significante,  fino ad assumere compimento di un ragionamento drammaturgico. Tre diverse scelte di portare la parola ( e testo) a teatro, sembrano legate da uno stesso comune denominatore:la parola diventa essa stessa protagonista, tralasciando (intenzionalmente) le altre componenti sceniche ad uso teatrale. A partire dall’estetica creativa ed artistica, là dove testo e messa in scena si completano a vicenda. Il sermone drammatico del Regno Profondo (Socìetas Raffaello Sanzio), T.E.L. dei Fanny & Alexander /Tempo Reale, Grattati e Vinci (terzo episodio della Trilogia dell’inesistente ed esercizi di condizione umana) dei Quotidiana.com, presentati al Vie Festival di Modena.

La voce umana è declamata dal profondo dell’animo umano, sentita e partecipata, suggestiva nel suo eloquio. Parla della fede per un dio superiore, denuncia laicamente il credo per una religione subita e non sentita. L’officiante del sermone è una donna, Claudia Castellucci. Si interroga e ci interroga sull’esistenza stessa di un io suo/nostro che cerca e vuole risposte, anche là dove tutto ha una ragione, ma è anche un “ragionamento spregiudicato sul tempo e sulla fine di tutte le cose”. Il coraggio di saperlo affrontare, di promuoverlo a chi sente la necessità di interrogarsi sull’esistenza dell’Uomo. Un voler/dover credere – in un dio comunque.

Ecco allora giustificato il “proponimento caparbio a varcare la soglia di ciò che non ha spiegazione logica alcuna”. Così dice Il Regno Profondo di Claudia Castellucci, sviscerato, scandagliato e sezionato, con il fine di portare a galla le contraddizioni di una fede cieca e acritica. «Venga il tuo regno riesuma un ciarpame monarchico – sintesi di un’analisi dettagliata che prende in esame il Verbo – è fatta la tua volontà, è stata fatta la tua volontà. Rimetti a noi i nostri debiti». Nel suo monologo c’è spazio per una disamina critica e lucida della preghiera in grado di spiegare come sia un «bieco rendiconto del dare e dell’avere. Una preghiera inutile che bisogna lasciare come una cosa interiore. Non sono parole attrezzi – declama l’attrice – che realizzano qualcosa, che servono come blocchi di cibo. Come noi li rimettiamo ai nostri debitori – è una frase di Gesù Nazareno – egli compì l’azione di pronunciarla, anche se era poco istruito. C’è un bisogno di rimedio universale. Devo chiedere perdono senza rivolgermi a qualcuno – è il convincimento della voce narrante – che per il momento non c’è. Un nessuno che non c’è ma è in me, per me, con me (sono parole che risuonano e si rifrangono tra di loro, capaci di suggestionare l’ascolto), per me, con me, per me. Nessuno deve essere qualcuno che non ho più visto da quando sono nato. Abbi pietà di me, anche se non ci sei (…) di me – che sono nato da qualcuno – deve essere qualcuno che ho fissato a lungo prima di arrivare, e che mi ha fatto vergognare all’eternità (è necessario trascendere dal senso di colpa inculcato nell’uomo da secoli. (la sua voce – nell’intensa prova offerta – si fa sempre più fievole), desidero pregare, sono nato, nato, nato». Un saggio di bravura dove la parola prende sempre peso e forma compiuta, richiede la massima partecipazione, la presenza scenica statica dell’attrice, seduta ad un semplice tavolo, ricoperto da un drappo, un microfono al centro, come un altare laico, semplice quanto necessario per affermare la centralità dell’Uomo sulla Terra, desideroso di risposte. Le stesse declamate, sofferte e recitate.

 

Assenza di peso alle parole come una sospensione temporale, in un vuoto pneumatico, senza emotività, priva di suono, di interiorità (apparente ma volutamente creata ad hoc), non giudica e non si fa giudicare. Una specie di sinestesia delle emozioni, priva di rapporto empatico se ascoltata con il cuore. Non deve arrivare di pancia, ma è cerebrale, volutamente distaccata. O per lo meno questa è la percezione provata, ascoltando (l’udito come un radar che capta suoni nell’etere) la voce di Roberto Scappin e Paola Mannoni, in Grattati e Vinci, nei loro “esercizi di condizione umana” … “nell’atto del creare attraverso i mezzi stessi dell’impotenza”. In queste parole scritte dagli autori/interpreti c’è la spiegazione della loro ricerca compiuta e portata avanti nel corso della loro carriera artistica, là dove spiegano –ancora – che “l’impotenza non come gesto attonito ma appropriazione di una volontà che non si sottometta ad un’ereditarietà ideologica” (….) con l’intento di “sollecitare una lettura critica del reale, articolando la moltiplicazione del dubbio, per condividerlo con lo spettatore nella membrana pulsante della sua inquietudine.”. Parole esplicitate con chiarezza che non lasciano dubbi alle reali intenzioni scelte dal duo Quotidiana. com, dove si dichiarano da sempre protagonisti di una ricerca estetica –espressiva – linguistica, senza mai far abdicare l’importanza della parola. Non c’è “rifiuto”, nella sua origine semantica, bensì l’urgenza di scovare attraverso una forma artistica e teatrale (anti teatrale in verità) le verità scomode in ciò che è, a volte, perfino considerato “non corretto pensare”.

La parola fuoriesce là dove il non detto cela nelle menti e nell’ideazione di molti. Pensieri celati dall’ipocrisia imperante che aleggia sovrana nella società d’oggi. Grattati e Vinci pungola le contraddizioni, gli stereotipi, le convenienze sempre più indecenti e prive di etica, così diffuse nell’uomo qualunque. La creazione drammaturgica, esposta in una particolare forma di dialogo a due, sembra assomigliare a due monologhi solipsistici, là dove i due protagonisti in scena sembrano trasmettere ciò che viene creato dalla propria coscienza, un dettame proveniente da una personale morale. Rigorose leggi del proprio io e non scaturite da regole esterne.

La direzione intrapresa a suo tempo in Tragedia tutta esteriore e Sembra ma non soffro, ora tocca aspetti più intimistici e laici del nostro vivere quotidiano (da cui deriva la scelta di chiamarsi Quotidiana..), le ansie e le sofferenze esistenziali tipiche di un malessere in assenza di coesione, comprensione, tra esseri umani, capaci di idolatrare falsi miti, alla rincorsa perenne dietro al baluginare di estemporanee felicità artificiali: «È meglio morire felici che aspettare che la mia malattia ci uccida», frase che drammaticamente possiamo recuperare in fatti di cronaca accaduti, dove il dolore e la paura portano a gesti estremi come il suicidio. Ci si sente soli e sperduti. In Grattati e Vinci il tema portante è il rapporto con il denaro che fa dire, ad esempio a Paola Mannoni: “Ero in un tabaccaio, ho comprato un biglietto del bus e una signora mi ha chiesto se fosse il nuovo Gratta e Vinci, così le ho detto di no, ma le ho detto anche che se voleva poteva grattarlo, ho immaginato che si è totalmente asserviti all’idea che anche non facendo niente, ci sia il modo per avere soldi, basta grattare. O grattarsi». Lo dice con quella “apatia” che contraddistingue la recitazione di tutti e due i protagonisti, scarna, indolente, senza toni espressivi, volutamente negati ed evitati, si estende simmetricamente, quasi assente nel suo trasmettere le vibrazioni emotive che stanno alla base di ogni sentimento umano: felicità, dolore, rabbia, frustrazione.

I due performer parlano di vita e di morte, sui guasti della nostra era mediatica, sull’impotenza pessimista di fronte a interrogativi esistenziali, una forma metafisica di teatro dell’assurdo, del nulla, ironica (un valore aggiunto al loro lavoro), dove prendono posto citazioni colte e inserti banalizzanti quanto lo sono quelli del nostro parlare e agire quotidiano (il cerchio si chiude), e loro lo spiegano quando parlano di “sciocchezze come spiragli dell’intelletto”. La riserva sul loro lavoro è dettata dalla fatica percepita a tratti, nel tentativo di entrare dentro questa dimensione meta-teatrale, dove l’appiattimento volutamente esasperato della parola – suono, risulta ostica da metabolizzare, a fronte di una struttura drammaturgica (testo – concetti – critica) coerente e assolutamente necessaria per chi come i Quotidiana.com, desiderano andare al di là della crosta superficiale della vita. Sotto c’è qualcosa di più perturbante dei miraggi propinateci ogni giorno. Forse vale la pena trovare delle soluzioni aggiuntive a supporto di una maggiore concentrazione e respiro, di aiuto e facilitazione per il pubblico, per evitare cali di “ascolto” e una partecipazione non solo riflessiva, così come è accaduto al TETE Teatro Tempio di Modena.

 

 

La parola mutua, diventa strumento per esperimenti etero diretti, data in adozione ad una tecnologia in cerca di visibilità estetico-artistica. Parola di T.E.L, ovvero Thomas Edward Lawrence, meglio conosciuto come Lawrence d’Arabia, un mito, uomo divenuto agente segreto e ufficiale dell’Esercito inglese. Un esperimento a due voci, distanti geograficamente, unite da un collegamento via internet satellitare, due performer: Chiara Lagani e Marco Cavalcoli. La prima a Modena al Teatro delle Passioni, il secondo a Firenze (Cango Festival Tempo Reale). Il progetto si è ispirato ad alcuni passi di “Stella del Mattino” dal libro di Wu Ming, in cui si raccontano le gesta di Lawrence d’Arabia. Una traccia labile aleggiante, scarnificata che privilegia una recitazione astratta dove la parola viene rilanciata attraverso la comunicazione a distanza, si mescola, si sovrappone. Marco Cavalcoli dall’etere chiama Chiara Lagana, gli lancia i comandi, e lei agisce di conseguenza con ritmi sempre più convulsi, sincopati, lasciati scorrere in binari che si intersecano e si confondono.

La voce umana e il suono della parola si fondono in una commistione con un sofisticato apparecchio tecnologico, capace di produrre e diffondere il sonoro mediante la digitalizzazione del suono. Sono varie componenti che sono state assemblate nell’ultimo lavoro -ricerca dei Fanny&Alexander, (ideazione Luigi De Angelis e Chiara Lagani) non privo di un certo fascino, ma dall’esito finale non risolutivo o per lo meno meno innovativo, rispetto le aspettative. Impossibile non citare West con Francesca Mazza dove l’esperimento raggiungeva esiti assolutamente convincenti e in un certo modo più affascinanti. È pur vero che T.E.L rappresenta una tappa di un progetto in divenire e che vede il 2013 l’anno di conclusione definitivo: lo sforzo è sempre teso a cercare altri linguaggi, diversi piani di lettura della realtà, con un occhio di riguardo per la sperimentazione in senso stretto del termine, e questo , forse, è un po’ il limite del lavoro presentato, rispetto all’indagine complessiva. Chiara Lagani offre un’intensa e sofferta partecipazione anche fisica fino allo stremo delle forze, sussultoria nei fremiti che scuotono il suo corpo, costretto a “subire” stimoli di persuasione fino ad arrivare a un condizionamento ipnotico, alla sua resistenza ad un ordine superiore, ad una geometria che non permette di uscire da un confine virtuale quanto claustrofobico.

 

Il Regno Profondo sermone drammatico

Con Claudia Castellucci (crediti fotografici di Pierre Planchenault)

Socìetas Raffaello Sanzio

visto il 16 ottobre 2011

Grattati e Vinci

di e con Roberto Scappin e Paola Vannoni

(crediti fotografici di Vincenzo Oliviero)

Quotidiana.com

visto il 22 ottobre 2011

T.E.L.

Fanny & Alexander /Tempo Reale

con Chiara Lagani (e Marco Cavalcoli)

(crediti fotografici di Enrico Fedrigoli)

visto il 16 ottobre 2011)

Vie Festival di Modena

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Share

Comments are closed.