Danza, Pensieri critici — 14/01/2025 at 11:57

La serialità della danza

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RUMOR(S)CENA – GENOVA – Che alla base del meccanismo seriale si ritrovi l’alternanza di variazione e ripetizione può essere un punto di partenza per riconoscere come la forma seriale sia già implicita nella tragedia attica dell’Atene del V secolo a. C. Serialità che si presenta con la struttura della tetralogia, ovvero la messa in scena in tre giorni programmati durante le Grandi Dionìsie di tre tragedie più un dramma satiresco.  Ma seriali erano anche i racconti di William Shakespeare riguardanti la lotta per il potere in Inghilterra, da Re Giovanni fino a Enrico VIII. Carlo Goldoni con la sua Trilogia della Villeggiatura (1761), scrive una sorta di mini-serie in tre puntate concluse, in cui si sviluppa la vicenda dei protagonisti delle tre opere  Le smanie per la villeggiatura, Le avventure della villeggiatura, Il ritorno dalla villeggiatura , che servono a dilatare il tempo di un’estate, quello cioè in cui si sviluppa la storia.

Nell’opera lirica pensiamo a L’anello del Nibelungo (1848), opera in forma di tetralogia con cui Richard Wagner ha realizzato la sua idea di opera d’arte totale. Nel balletto classico abbiamo invece la trilogia di Čajkovskij composta da Lago dei cigni, La bella addormentata e Schiaccianoci . I tre balletti infatti sono legati da un fil rouge , ovvero i ricordi d’infanza in cui il compositore russo si rifugiava nei momenti più angosciosi della sua vita. Tre storie basate su fiabe popolari che raccontano la paura dentro la quale però riesce sempre ad entrare una luce tranquillizzante.

Ma se come anticipato all’inizio, alla base del meccanismo seriale si ritrova l’alternanza di variazione e ripetizione, al teatro appartiene una terminologia seriale “propria”, dipendente dal fatto che la comunicazione teatrale è prevalentemente ancorata alla forma dal vivo e che troviamo nella replica e nel repertorio. Nella danza va aggiunto il complemento della  ripetitività scandita dal susseguirsi dei vari passi codificati. Quindi non solo fil rouge che lega le varie opere coreografico/ musicali, non solo il numero delle repliche, ma il ripetersi di passi  codificati che dal  1661 (anno di nascita de l’Académie Royale de Danse, voluta da Re Luigi XIV), non sono mai cambiati e che appunto si ripetono nel tempo. Le cinque posizioni dei piedi codificate da Pierre Beauchamp nel XVIII secolo sono le stesse ancora adesso e su di esse si basano tutti i passi della danza accademica, dal più semplice al più complesso. Tutte le coreografie dei balletti classici dell’Ottocento seguono  le posizioni e i passi codificati cent’anni prima, variando sequenze costruite sulle regole ben precise di quei movimenti . La danza classica accademica ancora oggi, negli anni duemila, si avvale delle stesse regole; benchè si siano perfezionati i fisici del ballerini, senza dubbio più atletici di quelli del periodo romantico, la serialità dei passi rimane immutata.

Isadora Duncan

Perchè una serialità di questo tipo sia durata e duri tanto è senza dubbio una domanda interessante. La risposta che viene spontanea è : perchè si lega ad ordine e bellezza. Per Aristotele infatti il bello presenta sempre ordine e misura. Dello stesso parere non si dimostrò Isadora Duncan, pioniera della modern dance, che deciderà infatti di rompere la serialità imposta dal balletto classico per giungere a quella che chiamerà danza libera, dove non solo si abbandonano le scarpe da punta, ma anche le cinque posizioni codificate daBeauchamp. Il fatto è che, sebbene in modo diverso, anche la  Duncan pose il seriale al centro della sua danza: i movimenti non erano più quelli rigidi del balletto classico, c’era più libertà nei passi, ma nei vecchi video rimasti ancora visibili non si può non notare il continuo ripetersi di gesti quasi a loop. Pina Baush farà lo stesso nel suo teatro danza anche se con stile totalmente diverso ( vedi Cafè Miller). Una serialità che si avvale della ripetitività di movimenti che non hanno alcuna intenzione di raccontare una storia come accade nei tradizionali balletti classici, ma che si focalizza piuttosto  su libere interpretazioni delle emozioni interiori.

A questo punto potremmo affermare che non ci sia danza senza serialità. Se Isadora Duncan non codificherà nulla del suo stile, la danza moderna, che ne nasce a seguire, avrà anch’essa la sua codificazione. Discorso diverso vale per la danza cosiddetta “contemporanea”, un genere in costante evoluzione che segue ed incorpora le varie correnti, appunto, contemporanee. Resta il fatto che tutte le forme di danza hanno il loro perchè nella gestualità seriale.

Isadora Duncan

Ma si può sempre parlare di ordine e bellezza quando cambia il concetto di serialità nella danza? Come accennato qualche riga sopra la danza contemporanea merita un discorso a sè. Nasce in Europa e negli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale, prosegue la rivoluzione attuata dalla danza moderna non seguendo più alcuna regola : un danzatore è spesso autore di sé stesso, l’improvvisazione diventa uno strumento indispensabile per la creazione, la musica può esserci, ma anche no. Quello che resta è il corpo che parla. Ed allora in questa rivoluzione totale si può ancora parlare di serialità e, se sì, in che modo?

Prendiamo ad esempio Trisha Brown, un’artista che ha vissuto in periodo storico in cui la serialità era proprio una corrente artistica (vedi Pop Art). Siamo negli anni in cui si espande l’arte di massa, quella che il critico statunitense  Dwight Macdonald chiama Masscult, una corrente che diventa il megafono un po’ deformato e decisamente ironico ed estremo della società dell’epoca invasa da nuovi oggetti di uso comune, fumetti e tanta pubblicità.Si attuano raffinati esperimenti sulla variazione nella ripetizione e sul rapporto che la ripetizione mantiene con il significato originale. Esperimenti che riguardano soprattutto l’arte visiva, ma che non escluderanno musica e danza.La  Brown,  considerata la  fondatrice della danza postmoderna, giunta a New York  intorno alla metà degli Anni Sessanta, si unisce a un gruppo di coreografi dando vita al Judson Dance Theatre lavorandoin maniera interdisciplinare unendo  ballerini a musicisti, artisti visivi, scrittori e registi. La sua eliminazione delle transizioni riecheggia idee che ci riportano alla musica sperimentale di John Cage in cui “i compositori si stavano liberando della colla… dove le persone avevano sentito la necessità di unire i suoni per creare una continuità. . .” come scrive Cage, ma nella danza, più che nella musica, “cancellare la colla” è un ideale irrealizzabile. Eppure in qualche modo la Brown riesce a togliere la colla ai piedi dei ballerini, addirittura fa di più: sfida la forza di gravità.

Trisha-Brown

“Man Walking Down the Side of a Building” che diventerà una pietra miliare della danza contemporanea apre il via a una serie di lavori conosciuti come “equipment pieces”. In questi pezzi vengono usati vari sistemi di sostegno come corde e imbragature di montagna, per cambiare sia il movimento dei danzatori sia la percezione da parte del pubblico. In Man walking down the side of a building (1969) e Walking on a wall (1971) carrucole e vincoli consentono il movimento in spazi insoliti o in modi che mettevano i corpi degli artisti in contrasto con la gravità. Nella celebre performance la Brown, adeguandosi al momento storico, non fa che utilizzare la quotidianità e gli oggetti utilizzati nella vita quotidiana per la sua comunicazione artistica. Gli oggetti vengono presi così come sono, “tali e quali”, preesistenti alla volontà dell’artista, che si limita a prelevarli e a utilizzarli in modo insolito, capace però di incrinare in noi il vetro opaco dell’abitudinario. Ma cosa più importante e significativa è che la gestualità dei suoi ballerini – acrobati consiste solo nel muovere un passo davanti a un altro, appunto camminare; operazione di fficile in quanto, nel caso specifico, perpendicolare al pavimento, ordinata se consideriamo la conseguenzialità dei passi, ma che forse mette in crisi il concetto di bellezza.

Man walking down the side of a building  fu infatti uno spettacolo il meno riconducibile possibile al concetto canonico di bellezza: il ballerino Joseph Schlichter (allora marito della Brown) camminò perpendicolarmente lungo la facciata del civico 80 di Wooster Street a New York procedendo per sette piani  dall’alto verso il basso sorretto da una rudimentale attrezzatura.  L’intenzione della Brown del resto non era certo quella di creare un senso di teatralità, ma di attirare l’attenzione sul semplice e naturale atto di camminare in una situazione in uno scenario innaturale. La performance della Brown fu ripetuta nel 2006 alla Tate Modern di Londra,  è stata poi riproposta al Walker Art Centre nel 2007 e al Whitney Museum of American Art nel 2010, ma a parte il cambiamento delle varie architetture in cui è stata eseguita, tuttavia, il pezzo è rimasto invariato.

Nella seconda fase creativa la Brown conferma il concetto di serialità nelle sue “accumulation pieces”. Qui l’interesse della coreografa si sposta su problemi di accumulazioni matematiche. La Brown scompone i movimenti numero per numero, esplorando la connessione tra ciascuno movimento modificato e la dimensione spaziale correlata a tale cambiamento. Con Locus la Brown non disegna la partitura ma crea anche una “composizione seriale”. Le direzioni dei movimenti di braccia e gambe sono soggette a cambiamenti sequenziali e spaziali in base alle posizioni dei 27 numeri nel cubo. I cambiamenti (ovvero dove dovrebbe andare il corpo e come un movimento è collegato a ciò che lo precede e a ciò che lo segue) sono regolati dal quadrato bidimensionale all’interno del cubo e la sua relazione spaziale con il cubo tridimensionale, e dalla figura umana in relazione con lo spazio cubico.

La sorpresa nella carriera della Brown arrivò però negli anni ’90, quando improvvisamente decise di iniziare ad usare musica giá esistente per le proprie coreografie. A quel punto della sua vita (aveva sessant’anni)  si è sentita attratta in particolar modo da quei compositori che palesavano un formalitá rigorosa, come Bach, il cui stile sappiamo essere caratterizzato da una combinazione unica di complessità contrappuntistica, e struttura formale impeccabile. Sulla musiche di Bach la Brown nel 1996 crea diverse coreografie. Qui troviamo la danza che si riappropria della sua essenza.  Certo i movimenti dei suoi danzatori  sono schematici, spesso marziali, ma trovano nella combinazione delle note di Bach quella serialità che tranquillizza, come se si volesse tornare al concetto di bellezza aristotelico. Un cerchio che si chiude dunque.

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