Teatro, Teatrorecensione — 13/10/2011 at 20:09

La nostra vita “cronica” è ancora in cerca di una speranza?

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La parola speranza la ritrovi citata tra centinaia di aforismi e frasi celebri, una tra tutte quella di Marco Tullio Cicerone che dice: “Finché c’è vita, c’è speranza”, dove il suo ottimismo si infrange nel pensiero di Franz Kafka, poco incline a crederlo se afferma: “C’è molta speranza, ma nessuna per noi”. Più caustico Charles Bukowski: “Eterna risorge sempre la speranza, come un fungo velenoso”. Eugenio Barba la pensa diversamente e lo scrive anche nel programma di sala dedicato a La vita cronica, andata in scena al Fabbricone di Prato, evento finale di Contemporanea, nonché titolo di apertura della nuova stagione del Teatro Metastasio.

 

 

“Non c’è speranza quando si è convinti che non ci sia niente da fare”, e a proposito della critica mossa ai suoi spettacoli ritenuti spesso “non molto comprensibili”, il regista padre fondatore dell‘Odin Teatret, ritiene che vi sia un legame misterioso tra “speranza” e “incomprensibilità”, facendoli dire che “la speranza è solo un modo di conservare la possibilità di illudersi, un’indecifrabile forza oscura che mi aiuta a vedere quello che voglio rifiutare, senza rifugiarmi nella condanna generica e nella rassegnazione”. È una concezione alla quale segue una visione particolare del suo credo artistico realizzato per il teatro.  E lo ribadisce a chiare lettere, quando afferma che «La vita cronica non è uno spettacolo disperato, La speranza vi si annida dentro come il “si” si annida nel “no”. Senza speranza non si vive. Questo vuol dire che la speranza può essere una virtù o una condanna». La Speranza, l’ultima dea per gli antichi romani, “Spes Ultima Dea”, che tradotto in italiano sta a significare “la speranza è l’ultima a morire”, l’ultima risorsa disponibile dell’uomo, prima di soccombere.

E di speranza si parla nel suo ultimo spettacolo, arrivato in Italia, dopo la prima rappresentazione avvenuta a Holstebro (Danimarca) il 12 settembre scorso, nazione insieme all’Europa, dove è ambientata (o per meglio dire immaginata), la sua Vita cronica, in uno scenario postbellico in un futuribile 2031, a seguito di una guerra civile dove convivono razze e culture diverse. Povertà, disoccupazione, la necessità di cercare fortuna altrove, uomini e donne costretti ad abbandonare la propria terra. Circola la Morte tra di loro, c’è chi la porta addosso come la vedova di un combattente basco. Al centro di un impiantito di assi disposte a forma rettangolare come una passerella, in tutta la sua funerea presenza, c’è una bara di vetro colma d’acqua, coperta da un panno che cela una salma. Devono combattere la rassegnazione come fa un ragazzo che cerca disperatamente il padre scomparso in Europa. È partito dalla Colombia e si prodiga incessantemente nel trovare tracce che lo portino a scoprire la verità. Si agita e ripete a tutti la stessa sofferta domanda, invano. Il regista ad un certo punto dell’azione, lo fa muovere sulla scena con gli occhi bendati, deve guardare il suo futuro con “altri occhi” e cercare il suo destino, lasciandosi alle sue spalle il passato. Inutili i tentativi di aprire quella porta nera che da sul nulla.

Sulla scena, è un continuo via e vai frenetico, un’agitazione che fa ricordare quelle popolazioni scese in strada per combattere in nome della libertà, in cerca di democrazia dopo aver subito una dittatura, la sopraffazione dei diritti universali dell’uomo. Creano e disfano onoranze funebri, si lasciano andare ad una sarabanda euforica di canti e danze, lanciano in aria pugni di monetine che tintinnano sulle assi, volano carte da gioco. Gesti simbolici, estremi, come se il denaro e il gioco d’azzardo fossero palliativi per colmare la mancanza di felicità.  Ma c’è anche la droga che ci dice come l’uomo si stia uccidendo con le proprie mani. Gli attori si prodigano con grande dispendio di energie, da un lato all’altro della scena che gli rinchiude dentro un recinto. Una Madonna nera in preda ad un’euforia anormale da sembrare indemoniata (Iben Nagel), una violinista di strada (Elena Floris), una rifugiata cecena (Julia Varley), un avvocato danese (Tagen Larsen), due mercenari (Donald Kitt, Fausto Pro).

Non passano inosservati i lugubri ganci da macellaio, a cui vengono appesi ali azzurre da angelo, chitarre di tutte le forme, un fantoccio (l’alter ego del ragazzo in cerca del padre), un pezzo di ghiaccio che cola lentamente e cade dentro un elmetto militare, dal suono metallico per nulla rassicurante. Viene posto anche sotto la testa della salma sul suo catafalco in mezzo alla scena. Citazione autobiografica, ricordata dallo stesso regista, quando da ragazzo vide la morte del padre e quell’ordine di comprare del ghiaccio per alleviare il dolore. La vita cronica si intreccia con quella vissuta dal regista. Forse, o forse no, di fatto la carriera di questo straordinario artista di 74 anni, portati con uno spirito giovanile, capace di aver creato per 47 anni ben 74 spettacoli, rientra di diritto nel suo pensiero-drammaturgico/registico.

Non può restare fuori dalle scene, una vita così intensa, tesa sempre nel cercare di dare un senso alle sue intuizioni. Lo spettacolo si avvale di momenti suggestivi, corali, a volte anche grotteschi, ridonanti, eccessivi. Come se volesse trarci in inganno per poi obbligarci a fare un tuffo dentro la storia, quella che lui chiama la “Gran Madre degli Aborti e dei Naufragi, Nostra Signora la Storia”. Nella storia visionaria che l’Odin Teatret ha realizzato c’è una vedova che il lutto l’ha resa una donna senza pace, esorcizza il suo dolore a modo suo (Kai Bredholt). C’è una donna emigrata rumena (Roberta Carreri) che prova a suicidarsi soffocandosi con un sacchetto in testa, masticando il vetro di un bicchiere, è nevrotica nella sua ossessione di pulire. Un musicista rock delle isole Faroe, nostalgico, (Jan Ferslev)suona la sua chitarra, ma è una storia del passato, un nostalgico modo per guardare ad un passato che non c’è più.  È un futuro apparentemente senza speranza, dove la vita è un po’ borderline, dove nessuno sembra trovare una sua dimensione di appartenenza. È un continua rincorsa verso qualcosa che non ti è stato scippato, rapito, violentato, ucciso,   e il futuro che avanza non è così radioso.

Quel mondo immaginato da Eugenio Barba, non è così dissimile dagli scenari di guerra che premono ai nostri confini /non confini. Sono i nostri vicini, li abbiamo visti arrivare disperati, parlano lingue diverse, sono accomunati dalla disperazione. Lo spettacolo non da risposte, il “caos” che vi regna è una matassa da sbrogliare con gli occhi di chi non ha pregiudizi e accetta di confrontarsi anche con l’estraneo, il “diversamente” da noi, per colore, razza e cultura. Il ragazzo (la giovane attrice Sofia Monsalve) dovrà accettare la crudele verità nascosta in quel strano sarcofago trasparente ma così enigmatico. Dopo di che lo aspetta ancora tutta la vita davanti. “Finché c’è vita c’è speranza”.

Dedicato a Anna Politkovskaya e Natalia Estemirova, scrittrici russe in difesa dei diritti umani, assassinate da sicari nel 2006 e 2009 per la loro opposizione al conflitto ceceno.

Testi: Ursula Andkjær Olsen e Odin Teatret   Con  Kai Bredholt, Roberta Carreri, Jan Ferslev, Elena Floris, Donald Kitt, Tage Larsen, Sofia Monsalve, Iben Nagel Rasmussen, Fausto Pro, Julia Varley. Dramaturgia: Thomas Bredsdorff. Regia e drammaturgia: Eugenio Barba

Una produzione Nordisk Teaterlaboratorium (Holstebro), Teatro de La Abadía (Madrid), The Grotowski Institute (Wroclaw)

visto al Teatro Fabbricone di Prato l’8 ottobre 2011


Ai Cantieri Koreja di Lecce dall’8 al 18 novembre.

Al Teatro Era di Pontedera dal 23 al 29 novembre.

 

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