ROMA – Il teatro trasforma il teatro stesso. Mimesi e metamorfosi della rappresentazione, la rivisitazione di Antonio Latella di Natale in casa Cupiello. L’occasione è l’anno Eduardiano, per il Teatro di Roma, il palcoscenico quello del Teatro Argentina. Palcoscenico di tradizione, seppure calcato frequentemente da compagnie o eventi lontani dalla prosa in senso stretto.
Ma più che mimesi, il termine metamorfosi risulta meglio calzante. Perlomeno in termini di linguaggio scenico, perché drammaturgicamente la fedeltà è alta, all’originale. Proprio da copione. Con tanto di didascalie e accenti, toni e intenzioni, materialmente (re)citate dagli attori. Soluzione Brechtiana: non nascondere il meccanismo, il trucco, lasciare vedere tutto. Ma anche ridare corpo alla parola, alla parola scritta, santificarla in corpo voce azione e linguaggio. Il teatro è logos. Lo spazio scenico, a proposito, non ha quinte nè scenografia. Una scena più che nuda, scarnificata, con le carrucole a vista ai lati (automatizzate), il graticcio esposto, il fondale mancante. Per scarnare l’opera. Indagarla, penetrarla, sviscerarla. L’originaria commedia – ma non di quelle canoniche, solitamente di derivazione latina, con situazioni emancipate dalla serietà tragica e restituite in chiave buffonesca sebbene condite di moralità – già nella sua stesura drammatica serbava delle ombre, dei dolori, delle amarezze palesi, emarginate dalla brillantezza del genio farsesco Eduardiano. L’occhio chirurgico di De Filippo scrutava distonie familiari, bassezze, pigrizie, disonestà, malcostume, come solo il suo acume nel percepire e raccontare le sfaccettature umane poteva mettere in scena. Scrutava l’uomo nella sua dimensione sociale primordiale: la famiglia. Una famiglia (piccolo) borghese, meglio, una famiglia di estrazione umile tendente al passaggio di censo, al gradino successivo. Ma che di tutte le estrazioni si fa contenitore. L’umiltà del pater familias Luca (Francesco Manetti) e del fratello Pasqualino (Michelangelo Dalisi), la regina di casa sua moglie Concetta (Monica Piseddu), l’alta borghesia (industriale) della figlia Ninuccia (Valentina Vacca) in moglie al genero imprenditore (Francesco Villano), l’amante (della figlia) aristocratico (Giuseppe Lanino), la pigrizia e l’arrendevolezza del popolo propria di Nennillo (Lino Musella), il figlio. E poi lacchè, dottori, portieri (e il portiere di un condominio, a Napoli, si sa, conosce la strada e i suoi re…), comparse. Personaggi epurati dalla caratterizzazione. Da sottolineare la grande prova degli di attori nel portare a galla i contesti, le intenzioni, i toni le geometrie le locuzioni d’interazione orizzontale e le azioni individuali. Con Lino Musella perfettamente sdoppiato nel suo alter ego, Monica Piseddu da icona e dall’intensità materica, Francesco Manetti che conferma la maestria nel linguaggio verbale e corporeo (soprattutto). Personaggi (attori) epici, crudi, feticci quando richiesto dalla circostanza di scena, come lo sono i pasquantozzi, le miniature del presepio.
E proprio la natura morta del presepio è la dimensione affiorata nel “Natale” di Latella. Le ombre portate in superficie, il sommerso della formula della commedia riemerso e prepotente, nero, funereo, doloroso. Il sottotesto che diventa sovrano, la sfumatura – in Eduardo per dare colore alla riflessione – che diventa, nell’opera contemporanea, traccia. Calco di questi tempi, bassorilievo per incisione funebre. Intingendo di solennità un’opera già di successo, inciderla con degno epitaffio. Perché modi e impostazioni di quel teatro sono sepolcrali, eterni nel loro accudire le folle, universali nel significato, immortali nel dipingere umanità mai mutevoli, ma inattuali, non possibili relativizzando a tempi storici e artistici. L’opera di Latella consacra, rende epico, destrutturando restaura.
Nel primo atto gli attori, dodici, disposti, in orizzontale, alla ribalta, bendati, in nero, declamano le proprie parti. O meglio, le propria partiture: in prima persona enunciano, preannunciando il loro gesto, l’azione, non compiendolo. Declamano le didascalie.
Nel secondo atto la declamazione del copione avviene in terza persona, in alcuni tratti, tramite tre attori mimetizzati in un coro contemporaneo e transgender, ai margini del punto focale ma dentro la scena (ancora Brecht). Il terzo atto, e parte del secondo, è azione, scena immaginifica, interazione tra personaggi, stavolta (alcuni) tratteggiati dalla caratterizzazione netta, vividi. E mentre nel secondo atto ogni attore portava con sé un “gemello” di cartapesta (o peluches), decorato con infiorescenze (come d’infiorescenze è la cometa gigante, calata dall’alto a inizio di scena, unico elemento scenografico, di contesto, nel primo atto) e rappresentante un animale del presepio (e cibaria di cenone), nel terzo l’identificazione si sublima: diventano personaggi di un presepio vivente. Dinamicità nell’ evoluzione attoriale, progresso in media res. Gli attori mutano loro stessi. Similitudine del trasformarsi dall’originale all’emulo.
La cupezza, filrouge, rappresenta le quotidianità familiari. Ne riempie livori, rancori, tradimenti, lotte intestine. Commedia che si fa dramma. Con una citazione evidente a madre coraggio nel secondo atto e il carro somigliante a un catafalco.
Rappresentazione della famiglia e delle sue dinamiche quale incubatrice sociale, prima cellula comunitaria. Contrapposta e identificata con la Sacra Famiglia, quella del Natale, del Presepe, sottesa, sussurrata da De Filippo, suggerita dalla ossessione al presepio di Luca, il pater, a cui nessun membro della casa pare dare attenzione. In Latella, invece, la famiglia è il presepe, con tanto di bue e asinello reali, in scena prima degli applausi. Ma non si nasce nella mangiatoia… si muore.
Sono innumerevoli i segni e le poetiche messe in gioco, forse eccessivi nel computo generale della longevità del visto. Ma un riscrivere una sacralità del teatro non poteva non essere così ampolloso di lezioni sul teatro e sul fare teatro. Dove estetico e etico si fondono, minimale e artificioso si contendono la scena, e i cenni su cui soffermarsi sono infiniti.
Uno spettacolo che si lascia guardare per punti di vista multipli nella dimensione percettiva di ogni singolo individuo. Uno spettacolo che divide, crea dissenso. Applausi e fischi. E il dissenso è l’anima della democrazia. Meglio un pubblico contento a metà che ammaestrato.
Natale in casa Cupiello
di Eduardo De Filippo
Regia di Antonio Latella con Francesco Manetti, Monica Piseddu, Lino Musella, Valentina Vacca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone, Emilio Vacca, Alessandra Borgia Drammaturga del progetto Linda Dalisi Scene Simone Mannino e Simona D’Amico Costumi Fabio Sonnino Musiche Franco Visioli Luci Simone De Angelis Assistenti alla regia Brunella Giolivo, Michele Mele Assistente volontaria Irene Di Lelio Visto al Teatro Argentina il 5 dicembre ’14 – Roma