MILANO – C’è un teatro a Milano tra i più antichi e deliziosi per la sua fattura d’antan. Se ne sta appollaiato, con la sua architettura elicoidale all’ingiù a fianco del Teatro alla Scala. E’ il Teatro Filodrammatici. Ed è qui che, dalla sinergia di Marina Gualandi, direttrice organizzativa del teatro, e Mario Cervio Gualersi, direttore artistico della rassegna, ormai quattro anni or sono, nasce “Illecite Visioni”. D’abitudine nel mese di novembre, quest’anno anticipata dal 30 settembre al 4 ottobre per rientrare nel calendario degli eventi EXPO; ma lo scopo resta quello: sensibilizzare alle tematiche LGBT (acronimo di “Lesbiche Gay Bisex e Trans”), raggiungendo un pubblico quanto più possibile trasversale attraverso drammaturgie a tema, ma anche una varietà di proposte collaterali quali documentari, contributi cinematografici, presentazione di libri. L’edizione 2015 è stata inaugurata da Annagaia Marchioro, una delle due “Brugole”, presenti nella passata edizione e poi ancora nella prossima Stagione. E’ questo, uno dei punti di forza, che lo stesso Cervio Gualersi ci ha tenuto a sottolineare: la capacità di far conoscere spettacoli, che puntualmente poi ritroviamo in cartellone nelle stagioni teatrali milanesi.
E’ stata forse solo una bagatella, quella della Marchioro: un gustosissimo monologo augurale, in cui l’ancorché giovane mattatrice ha introdotto la tematica lesbica. Ci ha parlato con graffiante ironia e un’innata empatia delle dinamiche di coppia fra due donne, ma solo per arrivare a chiosare, con un cambio di registro, che dal brillante scivola al quasi commovente, sull’universalità del rapporto amoroso – al di là di generi e facili cliché. Scaldato il pubblico e fatta la consegna di testimone, è stata poi la volta di “Assolutamente deliziose” di Claire Dowie, traduzione di Emiliano Russo, pure regista, e Ottavia Orticello, in scena con con Flaminia Cuzzoli. In una scenografia pop, in cui campeggiano un “A” e “B” dai colori fluo e dalla semantica dichiaratamente teen ager, si agita il gioco al rimpiattino fra queste due figure femminili. “Sorelle, quasi, amanti, quasi…”. La regia sceglie d’iniziare facendo ripetere loro ossessivamente le battute asettiche di un dialogo, che puntualmente ricomincia e che procede, monotono e accellerato, per accrescimento. E’ tutto già lì. Le stesse frasi, rituali e dinamiche sclerotizzate, che il passar degli anni, l’evolversi della vita e l’inasprirsi delle rivalità e degli eccessi risolvono in un legame furiosamente morboso fino alla necessità dello strappo, al tentativo di ricucire e poi, puntualmente, fino alle estreme conseguenze. Ciascuna ostenta un modo d’essere che è l’opposto dell’altra; ciascuna si determina a essere esattamente il contrario di quella che sembrava in un maldestro tentativo di trasformarsi nell’amata/odiata rivale. E’ un groviglio di passioni e pulsioni adolescenziali. Incombono figure genitoriali comunque irrisolte e fatalmente incapaci di veicolarle verso una sana adultità, nonostante l’apparente ‘normalità’ socialmente guadagnata dalle due quarantenni. Un fallimento: “lagnoso, frignante fallimento…”, dicono, in un microfono/confessionale, che sembra accoglierne e svelarne le paure più intime. La pièce procede per cliché, dicotomie facili e schematiche, che le due attrici interpretano in modo forse ancora un po’ acerbo, nonostante rispettino la partitura.
Altro tema caro al festival è stato “dar voce alla drammaturgia del nostro Sud”, aveva detto Cervio Gualersi in conferenza stampa. Ed ecco una mini personale dedicata a Vuccirìa Teatro, giovane compagnia fondata nel 2012 da Joele Anastasi (drammaturgo e regista) ed Enrico Sortino, già vincitrice di prestigiosi premi come la Migliore Drammaturgia (Joele Anastasi) e il Miglior Attore (Enrico Sortino) al Fringe Festival 2013, solo per ricordarne uno. A loro sono state dedicate due serate, in cui la compagnia ha proposto due lavori dalla medesima cifra poetica, ovviamente, ma dall’esito assolutamente differente. Così se “Io mai niente con nessuno avevo fatto” è una sorta di cunto in prima persona delle vicende biografiche di Rosaria e Giovanni, due cugini/fratelli figli, di due sorelle ragazze-madri in una Catania degradata e dominata da rapporti sociali brutali, primordiali e violenti, “Battuage” sembra perdere un arco drammaturgico narrativo e si risolve in una litania a quadri di denuncia. Nulla sfugge a quest’orgia iconoclasta, idealmente ambientata in fatiscenti gabinetti pubblici, che si trasformano, all’occorrenza, nei separé di locali per omosessuali o blasfemi confessionali, in cui è somministrata la particola del sesso a pagamento. Non c’è poesia, ma solo lo squallore – furioso, strepitante squallore – di tutti gli a vario titolo proscritti da una vita solare e costretti ad aggirarsi di notte, come gli spettri di una cattiva coscienza collettiva.
Non sono solo omosessuali, trans e puttane. In questa cornice di latrine pubbliche, dove costantemente si vestono, svestono, fanno e rifanno il trucco, gli attori non impegnati nella singola scena, non manca occasione per stigmatizzare anche la falsità del matrimonio religioso tradizionale, con le sue logiche di umiliazione e sottomissione, coi suoi legacci sacri, che altro non sono che subdoli lacci ad imbrigliare un’umanità sempre e comunque troppo fragile e inadeguata per non risultare perversa e sconfitta. Interpreti gli stessi Joele Anastasi – ancora una volta pure drammaturgo e regista, a far la parte del leone, anche sulla scena, con un’esplosione interpretativa forse comunque eccessiva, nonostante la brutalità del raccontato – ed Enrico Sortino, e poi Federica Carruba Toscano – coprotagonista anche in “Io mai niente con nessuno avevo fatto” – e Simone Leonardi.
Tutt’altre corde, quelle toccate dalla pièce della sera prima, anche se medesimo sono il pool – ad eccezione di Leonardi – e la ripartizione dei ruoli – drammaturgia e regia di Anastasi. Qui gli attori non meno performanti e generosi, sono capaci di restar nei ranghi del delicatissimo canone recitativo, che, mentre racconta la brutalità di episodi e dinamiche sociali arcaiche e proto patriarcali, riesce però a trasmetterci la freschezza e il candore di Giovanni (Joele Anastasi), femminiello del paese, perdutamente innamorato del ballo e della musica, e di sua cugina Rosaria (Federica Carruba Toscano), sua mamma/chioccia, nonostante a sua volta in cerca di una propria collocazione e legittimazione nel mondo. Quel che ne scaturisce è uno spaccato emozionale – ed emozionante – una sorta di favola moderna, con tutto il noir e il retrogusto da “orco” delle favole della miglior tradizione. Non c’è possibilità di scampo, lo intuiamo subito… eppure ci sono scoppi d’ingenuità e voli così ostinatamente pindarici e disarmanti, nei monologhi sincopati dei due giovani, che quasi si cede al rischio di crederci. Nonostante l’affettività forte fra i tre – al punto da crearsi un triangolo, quasi, con Giovanni al vertice – e Rosaria e Giuseppe (Enrico Sortino), il maestro della scuola di ballo, a farne da contrappesi , di rado i personaggi si toccano, in scena. Più spesso sono monologhi diacronici, in cui, illuminati da una luce a pioggia, ora l’uno, ora l’altro, praticamente fissi ad occupare quella sola porzione del palcoscenico. Come se non ci fosse nessun’altra collocazione possibile, per ciascuno, differente da quella che ha già – raccontano o ripropongono il loro pezzetto della storia. Quel che ne scaturisce è un ensamble emotivamente forte e ricco di spunti di riflessione, drammaturgicamente ben scritto, nonostante gli allora 23 anni del drammaturgo, e che va a pescare in un mare magnum che spazia dalla tradizione popolare, alla fiaba – la storia della pastorella e della ricotta, qui trasfigurata in quel “Mi farò chiamare Rosaria Motta Principessa di Sicilia, salita al nord perché i miei castelli sono in ristrutturazione e tutti vorranno parlare cu’ mìa…” -, dal cunto alla denuncia sociale fino all’attualità dichiarata – si parla anche di aids.
Il festival proponeva poi “Romanina”, omaggio alla storia vera di Romano Cecconi poi Romina, primo trans italiano dichiarato. La sua biografia è raccolta in “Io, la Romanina”, pubblicato nel 1974. A farla rivivere in scena l’incontenibile Anna Meacci, che, col suo fare graffiante da mattatrice ed una verve e mestiere assolutamente invidiabili, impersona Cecconi, facendocene rivivere le tappe di quello che di fatto è stato un percorso di evoluzione sì umana e personale, ma anche di emancipazione politica e sociale. E’ stato grazie al sostegno concreto anche di Massimo Paganelli, allora direttore di Armunia che organizza il Festival Inequilibrio di Castiglioncello, e Barbara Nativi del Teatro della Limonaia di Sesto Fiorentino che lo spettacolo ebbe allora modo di trovare una sua forma: prima all’interno di una residenza e poi vedendo il debutto, in barba alle interpellanze di chi raccoglieva firme contro uno spettacolo giudicato aprioristicamente “scandaloso” e che pertanto non doveva essere finanziato col sostegno del denaro pubblico. Ma non è nulla di tutto questo, “Romanina”. Non c’è scandalo, se non nella ‘non convenzionalità’ del tema trattato, che viene invece raccontato con leggerezza e intelligente ironia, senza farsi vessillo di una crociata, ma sdrammatizzando anche i momenti pur forti con una deliziosità e intelligenza di scrittura da renderlo quasi un sofisticato cabaret. A conclusione della serata un incontro per dare voce anche reale a Romina Cecconi, presente in teatro anche attraverso una mostra fotografica.
Dulcis in fundo “La morte della bellezza” di Giuseppe Patroni Griffi. E’ Benedetto Sicca, giovane regista di formazione ronconiana, a tentare di metterlo in scena. “La morte della bellezza non si può mettere in scena, non si può adattare e non si può ridurre. La morte della bellezza si deve leggere. Però lo si deve leggere!”, scrive nel foglio di sala, anticipando già quale sarebbe stato il suo approccio. Si tratta di un gioco meta teatrale, in cui i dialoghi, rubati alla scrittura preziosa ed evocativa del romanziere, riaffiorano immutati sulle labbra di Lilandt/Benedetto Sicca e Eugenio/Mauro Lamantia, ma poi travalicano anche in Benedetto e Mauro in quanto personaggi, sul palco, a interpretar se stessi. E, come ogni gioco che si rispetti, inizia con Benedetto a spiegarne le regole: dalla scelta di mantenerne il testo originale, all’inevitabilità dei tagli, che lo hanno portato a fare focus stretto sulla storia dei due amanti in un susseguirsi di quadri. Al pubblico è offerto di essere co-dramaturg: al provocatorio grido di “Froci” avrà la possibilità di far passare al quadro successivo, qualora lo desiderasse. Quindi la storia: quella di professore omosessuale napoletano – siamo all’epoca dell seconda guerra mondiale -, che per caso conosce il giovane Eugenio , in un cinema napoletano, durante un bombardamento. Fra i due nasce liason, che se per il giovane è un viaggio iniziatico di gioiosa liberazione e conoscenza, tutt’altro gusto ha nella mente e nel cuore dell’uomo, oramai quasi assuefattosi all’aver abdicato all’amore, accontentandosi di soli e fugaci incontri sessuali spesso sublimati in un geloso e solipsistico autoerotismo. Sono belli e puliti, attoralmente parlando, Sicca e Lamantia: più sofisticato e irreprensibile, il primo, più fresco e spontaneo il secondo, complice anche la giovane età – fino a lasciar trasparire una probabilmente involontaria e certo fuori luogo cadenza siciliana.
E sofisticate, nella loro essenzialità e pulizia, anche le scene, le luci quasi sempre giocate sul filo della penombra – quasi anche a smorzare la frequente nudità estetizzante dei corpi. Ma, alla fine, un prodotto forse troppo studiato, che ha perso in un eccesso di studio quella vivacità – pur all’interno di un linguaggio forte, osceno e passionale -, che arriva come filtrata attraverso una lente troppo estetizzante per pulsare ancora d’umano. Discutibile anche la ‘parola di controllo’: quel “Froci!”, che, pur riflettendo, probabilmente la mentalità dell’epoca nei confronti dell’amore omosessuale, mi è parso fuori luogo in una rassegna che, pur con tutta l’ironia e l’autoironia del caso, queste resistenze e questi cliché, in fondo, è proprio quello che si prefigge di demonizzare.
E, a bocce ferme, cosa resta, di questi cinque giorni di kermesse?
“Di cosa parliamo quando parliamo d’amore?”, si chiedeva Carver. E, in fondo, è solo questo: omo, etero o comunque esso sia, all you need is love, verrebbe da chiosare. Perché alla fine non conta chi, cosa o come. Quello che sembrano dirci, un po’ tutti questi testi, è dell’impellente bisogno di trovare una propria consonanza, fino alle estreme conseguenze di una liason pericolosa come in “Assolutamente deliziose” o nella ostinata freschezza del Giovannella di “Io mai niente con nessuno avevo fatto”; nella casistica grottesca, disillusa e quasi pasoliniana di “Battuage”, così come nella forza passionaria di Romanina o nell’imperativo categorico a una bellezza algida, ma che improvvisamente riesce, forse solo per un istante, a squarciare il velo del rigore estetizzante, trovando quel pulsare, di cui, in fondo, un po’ tutti abbiamo bisogno.