Teatro recensione — 11/11/2015 at 20:28

“Porcile” secondo Binasco: quello che manca a Pasolini

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PRATO –  Il 2 novembre del 1975 Pier Paolo Pasolini veniva ucciso e massacrato, si faceva scempio del suo corpo e della sua reputazione, si zittiva una tra le voci più alte della poesia e della cultura del Novecento. Un omicidio politico per mettere letteralmente una pietra tombale sul personaggio scomodo – sia a destra che a sinistra. Su chi osava scrivere sul Corriere della Sera: “Io so chi ha compiuto le stragi, chi ha tramato, chi ha coperto e depistato...”.

A quarant’anni dal suo omicidio che ormai può dirsi irrisolto (perché, a distanza di 38 anni dalla condanna di Pino Pelosi, la procura di Roma ha riaperto le indagini), sono molti gli spettacoli, i convegni e i passaggi televisivi dedicati all’autore più scomodo, controverso, adorato e denigrato dal Dopoguerra a oggi. Valerio Binasco lo fa a modo suo, con una rilettura personalissima di Porcile.
Le intenzioni del regista, come afferma lui stesso, sono molto distanti da quelle dell’autore. Binasco dice di voler raccontare una storia “empatica e capace di dare emozioni”. Lottando contro lo stesso Pasolini che, sempre secondo Binasco: “Avrebbe detestato una messa in scena come la mia, non straniata, non concettuale”. E, ancora, vuole presentare al pubblico le vicende di “una famiglia borghese con forti problemi psicologici” (Binasco rimanda a Strindberg; pare, piuttosto, molto più Bergman). Dove il padre, pur essendo un ex nazista (che farà affari con un ex sterminatore di ebrei), non può essere condannato dal regista perché lui stesso afferma: “Non faccio lo storico mentre dirigo i personaggi”.

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Porcile di Pier Paolo Pasolini, regia di Valerio Binasco

E infine, dopo aver liquidato il film Porcile di Pasolini come “orrendo”, aggiunge che “lui si interessa a Julian, perché la sua “vocazione sarebbe quella di raccontare i misteri dei comportamenti umani – non simbolismi e metafore”.
Fin qui quanto dichiarato. E bisogna ammettere c’è riuscito: ha prodotto uno spettacolo edulcorato, borghese, pieno di pathos, con personaggi un po’ “sfigati” (aggettivo dato dallo stesso regista a Julian), dove tutti sono colpevoli e, quindi, non lo è nessuno. In questo senso, una prova registica perfettamente riuscita. Ma Pasolini dov’è? I due punti cardine che non convincono sono il perché nel decidere una scelta drammaturgica, si opti per Pasolini (al di là della ricorrenza).  L’estetica utilizzata dallo stesso regista per mettere in scena lo spettacolo.

Si possono amare o detestare, Pasolini e Brecht, ma nessuno è obbligato a metterli in scena. Certo, si può edulcorare Brecht (come ben faceva Strehler con il suo realismo poetico) così come il drammaturgo/scrittore/regista, ma perché farlo? Nel 1965 Peter Weiss scrive L’Istruttoria. Oratorio in undici canti. Nel ’79 Rainer Werner Fassbinder dirige uno tra i suoi capolavori, Il matrimonio di Maria Braun. Nel ’66 Pasolini scrive Porcile per il teatro e, nel ’69, esce il film omonimo. Tre pietre miliari, nel senso di autentici macigni sulla Germania (così come sull’Italia) che non ha mai fatto veramente i conti con il suo passato nazista (o fascista), avviata verso il boom economico ancora col passo dell’oca. Non si può scherzare sui corpi di sei milioni di ebrei, e altri nove milioni tra Rom e Sinti, persone con deficit mentale o fisico, omosessuali e lesbiche, prigionieri di guerra, oppositori politici e comunisti. Non ci si può esimere da “fare gli storici”. Come oggi non ci si può esimere dal vedere quel lager chiamato Striscia di Gaza.

E la denuncia ha bisogno di straniamento, non della compartecipazione emotiva degli spettatori con i carnefici. Lo insegnava Brecht, lo ribadiva lo stesso autore qui citato; lo mettevano e mettono in pratica tanti – da  Gianmaria Volonté/Elio Petri nel cinema di ieri, alla Compagnia degli Scarti in stato di grazia con Ubu Rex oggi. La drammaturgia è piena zeppa di belle storie pronte per essere raccontate con mano delicata e felice. Di personaggi dei quali compiacersi o nei quali riflettersi con empatia. Pensiamo a Blanche di Un tram che si chiama desiderio, o a Edoardo II di Marlowe (che, nel 2001, l’Elfo traspose in una strepitosa versione fassbinderiana, Edoardo, sfida al potere).

Ma qui le forze in campo sono altre. In questo porcile/mondo, dove il capitalismo razzola e l’ingordigia sbrana il debole, fagocita i non ubbidienti, i dissenzienti, i diversi, anche solo gli inetti, non c’è più spazio per l’umanità. La zooerastia del protagonista o l’omosessualità di Pasolini non c’entra niente – e non hanno nemmeno a che fare l’una con l’altra. Continuare a intravedere in ogni personaggio che abbia comportamenti sessuali diversi da quelli etero uno specchio, per quanto distorto, di Pasolini, è quasi ucciderlo un’altra volta, anteponendo la versione ufficiale della sua morte non solo alla verità storica ma anche alla sua statura di uomo, prima ancora che di artista e intellettuale. Qui si tratta di teatro concettuale non di realismo borghese.

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E adesso veniamo all’estetica. Come rendere questo – usando una parola non certamente usuale nello scrivere –  schifo, che è il nostro porcile/mondo, sul grande schermo o su un palcoscenico? Certo, nella plastica realtà post-moderna nella quale ci aggiriamo, molti si permettono, come Gabriele Muccino, di definire Pasolini “un regista amatoriale”, o di aggettivare il film Porcile come “orrendo” (Valerio Binasco). In realtà, altri continuano a sostenere che l’estetica dovrebbe sposare l’etica e che il vero peccato originale è rendere l’orrore esteticamente accettabile. C’è chi tuttora sottoscrive quanto affermava Jacques Rivette riguardo a Kapò di Gillo Pontecorvo: “Prendete l’inquadratura in cui Riva si suicida gettandosi sui reticolati elettrici; l’uomo che a quel punto decide di fare una carrellata in avanti e inquadrare il cadavere dal basso curando di far coincidere esattamente la mano tesa con un angolo dell’inquadratura, quest’uomo ha diritto soltanto al più profondo disprezzo”. Sebbene l’estetica per Hegel fosse una riflessione filosofica sul bello nell’arte, già sul finire della sua vita si attuava quella morte dell’arte che avrebbe travalicato i confini della bellezza classica o ideale, dando la giusta dignità all’espressivismo fino all’affermazione della dignità di un’estetica del brutto.

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Porcile. Cosa può esserci di bello in questo ritratto impietoso del potere e dello scontro generazionale, intessuto di simboli e metafore, che Pasolini voleva recitato con la tecnica dello straniamento: la più consona a mettere lo spettatore nella difficile posizione di essere pensante e giudicante e non passivamente consenziente? A volte il brutto può riscattarsi nel sublime, grazie alla dimensione del grottesco. Altre volte deve rimanere tale. Lo si fa sgranando la fotografia perché il film di denuncia non si trasformi nella celluloide patinata hollywoodiana; trasformando un beniamino del pubblico in uno squallido reietto di periferia (come fece Ettore Scola con Nino Manfredi in Brutti, sporchi e cattivi).
Porcile di Pasolini non può diventare consolatorio né patetico. Ida non è più vittima di una delle tante figure descritte dalla Norwood in Donne che amano troppo; Julian non è un antieroe “tenero e sperduto” (Binasco) più di quanto lo sia qualsiasi figlio di questa società, e i genitori non sono privi di colpe solamente perché non le agiscono in scena. Per quanto possa non piacere, sono simboli, metafore, o come dichiarava lo stesso Pasolini, personaggi che avrebbe: “Infilzato come farfalle sotto vetro”.
Non si è obbligati a condividere l’universo artistico o intellettuale di Pasolini. Se non lo si comprende, si può tranquillamente evitare di rappresentarlo. Ma si deve, comunque, ringraziare Valerio Binasco e il Teatro Metastasio per averci dato la possibilità, ancora una volta, di approfondire la sua arte perché di Pasolini si sente il bisogno, oggi più che mai.

Visto al Teatro Metastasio di Prato, giovedì 5 novembre 2015
Porcile
di Pier Paolo Pasolini
regia Valerio Binasco
scene Lorenzo Banci 
costumi Sandra Cardini 
musiche Arturo Annecchino
luci Roberto Innocenti
personaggi e interpreti:
Padre: Mauro Malinverno
Madre: Valentina Banci
Julian: Francesco Borchi
Ida: Elisa Cecilia Langone
Hans-Guenther: Franco Ravera
Herdhitze: Fulvio Cauteruccio
Maracchione: Fabio Mascagni
Servitore: di casa Pietro d’Elia
coproduzione Fondazione Teatro Metastasio di Prato / Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia con la collaborazione di Spoleto58 Festival dei 2Mondi
in occasione dei 40 anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini

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