Teatro, Teatrorecensione — 11/05/2015 at 16:52

Jesus dei Babilonia Teatri: ” un elastico teso e rilasciato”…

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MILANO – E’ un elastico continuamente teso e rilasciato, questo “Jesus” dei Babilonia Teatri – un biglietto di andata e ritorno fra pop e popolaresco, in cui i lustrini di una Chiesa-show business si mescolano all’autenticità di una pietà popolare, che sa invece di piccole cose ancora raccontate in dialetto. E si affretta a rivendicarlo “anca lü, Jesus”, per bocca di Valeria Raimondi, qui one woman show: “Mi son un omo… son mjha la Giesa!”. Nel frammezzo i modi espressivi della liturgia – dalle giaculatorie alla parafrasi scritturale fino alla reinvenzione del ‘credo’ in un Dio sempre più umano e “nelle chiese di pietra, nei loro silenzi, nella loro pace […] dove il giorno resta fuori e ognuno è libero di pregare, di piangere e porgere l’altra guancia”. Tutto questo per sciorinare un’invettiva fin troppo scontata, però, e incapace di affondare davvero il colpo – al di là di certe trovate pur argute e a tratti godibili. Un susseguirsi di miti pop: così quel Jesus che è ‘dappertutto’, come insegna il catechismo – “In Cielo, in terra e in ogni dove…” -, lo si sciorina davvero qual icona onnipresente – dalla marca di jeans a immaginetta-gaget riscontrabile ovunque, Papa Francesco docet, perfino sui social e nei tweet. A contraltare il nostalgico ed edulcorato ricordo dell’arrosto domenicale – agnello, non a caso: al forno e con le patate -, ma poi tutto si amplifica. “Come lo faresti tu, ma più in grande…” – viene in mente la réclame di un noto ragù.

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Ecco queste, in sintesi, le suggestioni di uno spettacolo che non manca di intuizioni felici e di momenti di toccante poesia. Sono l’incalzante interrogatorio del piccolo Ettore di fronte alla scoperta della morte – poco sa opporre, quella madre atea, alle sue lacrime, se non che: “Non è adesso. Adesso possiamo anche non pensarci. Sarà fra tantissimo tempo. Possiamo non pensarci […] almeno finché il sole è alto e illumina le cose” – e il già ricordato credo “nelle chiese di pietra” e “in una vecchia piegata sulle ginocchia, nella sua fede […] nella sua paura, [….] nella sua candela […] contributo alla luce”. Poi, però, sembra quasi risolversi tutto in un pretesto.
Non sembra essere una morsa allo stomaco, quel che sospinge i Babilonia a confrontarsi con una tematica così scottante – non l’appetito bulimico di un Pantagruel disposto a ingurgitare tutto e tutti, pur di divorare il fantasma di in “Dio incartapecorito”, né l’ira funesta di un Giobbe, che si cinge i fianchi contro di Lui, pur dopo averlo amato e servito così a lungo. Lo si racconta, al ritmo di cha, cha, cha, flamenco: quasi un solletico, la prepotente seduzione della danza, per dare un senso a quest’orgia iconografica di Jesus: da dove viene? Quindi non “fame”, ma “voglia di qualcosa di buono”, quasi – una dorata croccante pralina al cioccolato, fatta per ingolosire più che per sfamare. Così non fa specie se quel che ne sortisce è uno spettacolo bel fatto, formalmente, sì, ma che poi poco sa andare oltre lo schiamazzato frastuono di trovate sceniche di sicuro impatto visivo – dall’ostensione dell’agnello alle svariate piogge: sul palco e sul pubblico. Quel che si persegue è certo lo stigma di una Chiesa, che ha superato se stessa nel diventare quel luogo di mercimonio e perversione, che l’uomo Jesus aveva scacciato dal tempio.

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E la scelta di un modello espressivo così consapevolmente amplificato e impattante – nelle luci, nei pochi ma studiati oggetti di scena, nell’azzeccata scelta di una colonna musicale spiccatamente pop: da Jesus Christ Superstar a Personal Jesus fino all’ Alleluja di Cohen – fa certo buon gioco nel suscitare nel pubblico una reazione viscerale, che bypassa le categorie logiche e razionali dell’assenso. Forse è questo, un po’ il punto: come al circo, qui ci vien chiesto soltanto di divertirci ed applaudire.
E’ questa, la società dello spettacolo – ma, questa, sembra essere anche la metafora e la parodia della società tout court. E, quindi, anche della Chiesa – quella del ventunesimo secolo, tallonata dalla paura dell’anacronismo, che cerca di esorcizzare, tirandosi a lucido e munendosi di tutti quei lustrini, che così poco avevano a che fare con il Nazareno. Di contro, una pietà popolare, che se sa di ‘buono’, brilla anche per tutta la sua melensa ingenuità. Come se non ci fosse altra via: come se l’alternativa restasse fra il diabolico spirito del mondo, insinuatosi in una chiesa-show-business, ed una religiosità ingenua da coltivare nell’intimità del proprio cuore – o, al più, nel luogo sospeso di una qualche chiesetta di pietra, affidandolo alla pratica di un rito solitario. Probabilmente ci sono tantissime declinazioni, fra questi due estremi: ma forse è più facile fissare uno zenit ed un nadir e poi costruire una rutilante spirale performativo drammaturgica – abbandonandosi allo spassoso gioco, che ci trascina via. Le storie si confondono Agnus Dei Martinella.

Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano il 4 maggio 2015

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