Teatro, Teatrorecensione — 11/04/2015 at 09:19

Rooms 2.0 parla emotivamente ai giovani

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MILANO – Preceduto da un’eco di riconoscimenti – menzione speciale “Premio Giovani Realtà del Teatro” 2013, vincitore Bando “La città infinita” 2014, vincitore Bando “Direction Under 30” 2014 – “Rooms 2.0” è approdato a Campo Teatrale di Milano l’8 aprile 2015, dove resterà in scena fino a domenica 12. E’ un lavoro di giovani. Sono tutti mediamente under trenta: i registi Marco Bellocchio e Lisa Moras – autrice, pure, quest’ultima, della pièce -, così come Elisabetta Mossa, l’attrice e Stefano Zullo e Alberto Biasutti – rispettivamente costumista e sound design. Ed è anche un lavoro per giovani. Lo spettacolo, infatti, ben si presta ad una programmazione dedicata alle scolaresche ‘teen’, data anche la tematica affrontata – oltre che il linguaggio, che efficacemente rispecchia lo sleng giovanilistico ed emotivamente sovreccitato tipico di chat e social. Così, in evidente contrasto con la scelta di auto isolamento di Olivia, ciò a cui assistiamo è il contrappasso di un’ abboffata di vita virtuale – scomposta, caotica, multiple opinions. Quasi che la vita, cacciata dalla porta, rientrasse, sé nonostante, dalla finestra – o, forse, through… Windows, strizzando un occhio al linguaggio dell’informatica.

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Hikikomori‘: è così che in Giappone si definiscono quei soggetti che si isolano, forse perché troppo pressati dagli eccessivi parametri di performatività, a cui quella società li espone – o, forse, a causa del modello familiare nipponico, segnato dalla friabilità della figura paterna, suggerisce Wikipedia. ‘Hikikomori’ è anche la figura esplicitamente chiamata in causa nel foglio di sala.
Già, ma poi non lo sappiamo con precisione – fin da subito – perché Olivia si trovi lì – auto segregatasi nel ventre di una tenda da campo, che, con la sua consistenza diafana, tanto sa di bozzolo. Probabilmente un po’ è il simbolo di quel ‘chiuso-che-protegge’ – e che non a caso vediamo diventare, durante lo spettacolo, ‘tana’ ma anche mal tollerato luogo di reclusione -; un po’ è la sua seconda pelle – e la dicono lunga, in tal senso, le trasformazioni in ‘pulpito’ o, in un passaggio, addirittura in veste, sudario o placenta.
Sicuramente l’allestimento scenico è efficace, in questo senso: Olivia è chiusa lì dentro – quando parla al telefono con la madre così come quando cerca d’ingannare il tempo di quello che lei stessa definisce un ‘esperimento di auto-reclusione’ nei filmati che posta sul web -, ma paradossalmente ne esce, quando entra in quel mondo virtuale, fatto di relazioni, che sembrano più facili da gestire. Basta un click ed ecco che si spengono, le lampadine sparpagliate per il palco su aste di altezze variabili a simboleggiare gli anonimi interlocutori virtuali.
Hikikomori? Quello che si designa è sempre più il profilo del nerd – predisposizione per la tecnologia e al contempo contegno solitario o ridotta propensione alla socialità. Ma, al di là di tutto, quel che la pièce sembra raccontare sono “I dolori della Giovane Olivia… ai tempi dei social”, si potrebbe dire, rubando a Goethe il suo indugiare sulle fragilità dell’età di passaggio e a Gabriel Garcia Marquez quell’insopprimibile innamoramento per l’happy end, che si schiude – in fine – anche sulle labbra della bisbetica e caustica Olivia: “Lo so che è banale, ma la felicità mi commuove”. Epilogo condivisibile – specie pensando alla fruibilità per le scolaresche.

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Eppure è un po’ questo, il punto. Mentre è di un’efficacia straordinaria nel restituire – e non semplicemente ‘illustrare’ – le dinamiche relazionali dei social, il suo linguaggio ‘emotico(n)’ e quel piovere di ‘like’ – amplificato dal sound di sottofondo – o dei pareri più disparati – quasi in risposta ad un’oscura compulsione al dire la propria: a prescindere dalla sensatezza di quel che si dice, ma in omaggio al solo imperativo aureo del: “Dic et imperat!” -, la drammaturgia sembra poi zoppicare nella delineazione netta di un finale leggibile in senso univoco. Tiene bene la scena, Elisabetta Mossa, con quel suo piglio giustamente annoiato e che ostenta un disinteresse invece attento e trepidante per quel che accade – al di là, ma anche al di qua del diaframma virtuale -, eppure non basta. E se è maestra nel restituire la lusinga sottile del potersi presentare – via web – per come si è, fino a polverizzare i tempi di intimità con l’interlocutore o, al contrario, fingere quel non si è, protetti da un anonimato, capace di innalzarci a divi in un solo istante, di fatto poi, la sua vicenda è “come un film francese” – di questo l’accusa uno degli ‘amici virtuali’: “Alla fine il tuo esperimento è come un coitus interruptus”. E’ un po’ così, perché, svolto in maniera superba il lungo cappello introduttivo descrittivo, la scrittura scenica sembra lei stessa vittima di un’effettiva irrisolutezza rispetto al dove andare a parare. E se ben si comprende – e condivide – la scelta di non buttarla in una semplicistica spettacolarizzazione di un atto estremo – questa, pure, una delle accuse rivolte da una delle tante voci anonime del web… -, il cincischiare in mille finali possibili per poi apparentemente decidersi per quello ‘buonista più del doppio’ – come lo auto definisce Olivia -, davvero sembra solo un ulteriore atto di volontaristica auto-determinazione.
Coerente, certo, con un personaggio alla Munchausen – e, come lui, dalla fragilità furiosa e palpabile -; ma, ancora una volta, forse un po’ troppo autoreferenziale per poter avere una valenza etica e, dunque, davvero estetica.

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