Teatro, Teatrorecensione — 10/09/2011 at 15:49

La stanza del tempo perduto e’ nella memoria presente di Teatro Persona

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I legami fra una persona e noi esistono solamente nel pensiero. La memoria, nell’affievolirsi, li allenta; e, nonostante l’illusione di cui vorremmo essere le vittime, e con la quale, per amore, per amicizia, per cortesia, per rispetto umano, per dovere, inganniamo gli altri, noi viviamo soli. L’uomo è l’essere che non può uscire da sé, che non conosce gli altri se non in sé medesimo, e che, se dice il contrario, mentisce” (Marcel Proust)

 

C’è qualcosa che ti riconduce al segreto mondo dell’inconscio onirico, come un viaggio dentro la memoria ancestrale dell’animo umano, dove trovi sempre in fondo una porta chiusa che si apre su di un’altra. All’infinito. Sono sensazioni visive estemporanee, mentre assisti ad Aure, ultima creazione per il teatro di Alessandro Serra di Teatro Persona, capitolo conclusivo della “Trilogia del Silenzio”, ispirato all’opera monumentale di Marcel Proust, (tremila pagine pubblicata in sette volumi), dove l’autore si è cimentato nel cercare di capire di cosa il tempo è costruito, nell’intento di fuggire il suo corso. Opera letteraria considerata universale, in grado di testimoniare la progressiva evoluzione di tutto il pensiero, che stava alla base di Proust, capace di affrontare, come nessun altro, temi quali il recupero del tempo perduto, del ricordo, e della rievocazione malinconica del passato perduto.

Finito nell’oblio della memoria quando viene poi impresso dall’arte, diventa una forma di tempo interiore, metabolizzato da una soggettività individuale, rielaborato in una forma strettamente personale. E qui Proust si sofferma, in modo particolare, sull’importanza dei luoghi chiusi, stanze domestiche, spazi interni e interiori, dove l’uomo trova riparo, la necessaria concentrazione per entrare in ascolto con se stesso, quella forma di “ascolto” intimistico, profondamente sincero, quello che ha che fare con il nostro io. “Mi chiudo nella mia stanza”, è espressione in uso, molto comune, ma che nasconde ben altro di una semplice azione quotidiana.

La camera chiusa è l’ambiente scenico predisposto per dare vita ad Aure, visto al B.Motion di Bassano del Grappa, con Valentina Salerno, Francesco Pennacchia, Chiara Casciani. Uno spazio segnato dal bianco e dal nero. Porte bianche si aprono e si richiudono e lasciano intravedere profondità come buchi neri, dove perdersi, ignoti meandri oscuri. Le stesse porte servono a tenere fuori da quell’antro metafisico (quanti rimandi pittorici qui vengono evocati), qualcosa che fa paura, che non si conosce, e spaventa. C’è sempre una tensione latente che serpeggia in tutta l’azione, e le pareti nere sono quinte, che racchiudono in un perimetro (quasi) claustrofobico, i tre personaggi, umani e manichini, a seconda dei ruoli. Esseri in carne ed ossa colpiti improvvisamente da strane forme di catatonia. Immobili e stridenti, portati a forza in scena da chi è ancora dotato di  sembianze più terrene e umane, a noi conosciute.

Anche il corpo subisce questo slittamento dal dentro/fuori e viceversa. Viene come traslato da un suo habitat naturale verso mondi eterei, senza peso, senza vita, impalpabili. L’uso straniante del suono e delle luci, fa tutto il resto. Rumori e abbagli luminosi, come lampi notturni che illuminano la volta celeste, squarciata da fulmini e tuoni, ma silenti, sussurrati, entrano dentro dai pertugi, si intravedono dal buco della serratura. E ci costringono a diventare quasi dei voyeur, malgrado noi, spiati e spie di noi stessi. Sono stanze dei dolori, delle attese, di un passato che non ha tempo, una scadenza temporale, e un presente che cerca di uscire da quel luogo asfissiante. Un congedo, un addio, sembrano dire le due donne che si abbracciano in totale silenzio, per poi sembrare che non sia accaduto nulla.

È un magnifico gioco registico e drammaturgico – visuale , reso con abile maestria da Alessandro Serra, coadiuvato dalla bravura interpretativa spinta fino all’immedesimazione che collima con la perfezione, dei tre performer. Corpi che diventano arredi di scena, lo strascico del lungo vestito bianco di una delle due donne, diviene lentamente, esso stesso, tovaglia di un tavolo, prolungamento corporeo, capace di assomigliare a qualcosa di simile ad un mitologico ippocampo o ancor di più, un centauro dalle forme ambigue, maschile/femminile. Accompagnato da un rumore simile ad un scricchiolio di legno, fino a diventare altro,una larva uscita dal suo bozzolo.

Sono quadri pittorici che si susseguono come fasi, conseguenziali di un viaggio, all’interno della memoria più recondita e lontana, sensazioni a ritmi continui, calibrate con precisione millimetrica, di rara perfezione figurativa ed espressiva. Scrive il regista  nel programma di sala che “i personaggi sono figure androgine agghindate per l’occasione. L’anima stessa è rivestita da un involucro corporeo. È la fase cruciale che titola il paragrafo sulla relazione tra attore e costume – ecco la spiegazione drammaturgica di tali scelte – si ricongiunge alla metafora della crisalide e della farfalla adottata da Proust”. La donna che si stende sul tavolo sembra deceduta, un corpo inanime, senza afflato di vita. Il suono del pianoforte che segue assomiglia ad un requiem, il sibilo del vento entra dentro le nostre coscienze e ti costringe ad interrogarti, a ridiscutere la tua essenza stessa.

Serra intende affermare la sua scelta stilistica e poetica, concentrandosi, solo ed esclusivamente sulla potenza dell’immagine, assurta a metafora esistenziale, lasciata libera di emozionare lo spettatore, di catturare rimandi nella sua psiche-anima- corpo. Non dà risposte, tanto meno utilizza forme di linguaggio narrativo (nel senso della parola), ma vira e sceglie a piene mani, forme di meta-linguaggio, sì esaustive per bellezza estetica e raffigurative, ma è qui che si insinua il dubbio, un’ incognita, a cui non c’è risposta soggettiva ed individuale – pregio o limite del lavoro – che possa aiutare a ritrovare una qualsiasi forma di decifrazione del tessuto e costruzione narrativa – drammaturgica di Aure. L’onestà intellettuale di Serra,  e dei suoi bravissimi interpreti, esprimono senza indugio la loro scelta e la contestualizzano efficacemente. Sta alla memoria perduta di noi, semplici osservatori esterni, farci un’idea personale, e forse recuperare quei fili che si annodano, aggrovigliati dentro la memoria di ciascuno, nel tentativo titanico di sbrogliarli, e trovare un senso alla nostra esistenza terrena.

 

Aure

Teatro Persona , regia di Alessandro Serra.

Con Valentina Salerno, Francesco Pennacchia, Chiara Casciani.

Visto al B.Motion di Bassano del Grappa il 3 settembre 2011

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