Teatro, Teatrorecensione — 10/08/2012 at 21:32

Un morso sul collo ed è la fine per tutta l’umanità. Fassbinder e Arcuri non salvano l’uomo dal suo destino

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In una notte tiepida e colorata che faceva della centrale di Fies, un fantasmagorico castello colorato di mille luci a rischiarare le mura merlate come tanti tasselli di un puzzle, compariva una strana figura aliena chiamata Phoebe Zeitgeist,  (l’attrice Miriam Abutori strepitosa in un ruolo per nulla facile) venuta da chissà quale pianeta. Scesa sulla Terra per farsi un’idea di come funziona la vita e la convivenza tra gli esseri umani in democrazia. Compito arduo: non sapendo comprendere la lingua degli uomini (le parole dell’alfabeto le sa ripetere) ma l’uso maldestro le fa dire il contrario del loro significato corrispondente ai sentimenti umani. L’odio viene scambiato per l’amore e viceversa fino a trasformarsi in una Dracula femminea vampirizzando e mordendo sul collo tutti gli umani. Una specie di girone dantesco post moderno in cui devono starci prostitute, marchette, militari gay, uomini che abbandono il proprio tetto coniugale, falliti.

Tutto ruota intorno a lei in Sangue sul collo del gatto di Rainer Fassbinder, nella versione messa in scena da Fabrizio Arcuri con l‘Accademia  degli Artefatti. Secondo capitolo del Dittico degli Ideali (il seguito dopo gli Orazi e Curiazi di Bertolt Brecht), visto a We Folk! il festival di Dro. Non è un bel mondo quello che appare all’aliena: intorno a lei uomini e donne danno libero sfogo a tutti gli istinti anche i più biechi e cinici, segno distintivo dell’uomo a cui Fassbinder interessa dimostrare la totale assenza di adesione sociale ad un progetto di vita comunitaria e democratica. Ognuno rincorre un suo utopistico desiderio di sopravvivere a scapito del prossimo e con ogni espediente possibile. Lecito o illecito che sia, non fa differenza.

Uomini e donne che si accapigliano, litigano compulsivamente, danneggiando ogni parvenza di relazione che non sia conflittuale e/o sessuale finalizzata all’esorcizzare la morte. Incombe su di loro una spada di Damocle che non lascia speranza per un futuro di speranza e redenzione. Hanno un’indolenza tale che li rende indifferenti perfino alla loro condizione stessa di frustrati e impotenti. Non importa essere poliziotto o maestro, macellaio o prostituta, tutte categorie incapaci comunque di riuscire a riscattarsi da quel luogo dove la convivenza forzata è sempre più dirompente. Vivono dentro e fuori ad una casa che pioggia su una pedana ruotante mossa ad ogni cambio scena. Un interno/esterno aperto sul pubblico così che si possa vedere cosa accade anche nel privato più intimo. Un arredamento essenziale segno di una condizione borghese modesta.

La sensazione è quella di un disfacimento progressivo che porta verso un finale autodistruttivo. Consumano le giornate tra adescamenti, perversioni sadomaso, alcool. Ogni espediente buono per abbruttirsi. Phoebe Zeitgeist si aggira tra di loro e vede come l’uomo e la donna non abbia assolutamente autostima di sé. Una modella che ha il terrore di perdere la sua immagine di donna giovane e attraente, non fa che esorcizzare la morte e la vecchiaia. Un poliziotto macho e violento che rivela un carattere debole e fragile, capace di piangere come un bambino di pochi mesi. La natura umana nel suo paradosso esistenziale rivela come un doppio che smentisce l’altra parte. Implosione della razza umana? Ognuno di loro parla a vuoto, parla con se stesso, non comunica, in realtà, con i suoi simili.

Ogni personaggio entra ed esce come in una commedia e recita la sua parte, per poi uscire e lasciare il posto ad un altro. Lo fa con assoluto distacco come se la sua parte non dovesse interiorizzarsi Un meccanismo ad orologeria che la regia coordina con sincronismo. L’esaltazione del vuoto interiore enfatizzato da reazioni scomposte e insulse. Arcuri sceglie di sottolineare il registro ironico e talora anche grottesco, facendo comparire sul finale perfino King Kong. Ha una visione dissacratoria e cinica della vita di questa razza che l’aliena fatica non poco a decifrare.

C’è anche un musicista a lato della scena che suona la chitarra eseguendo brani celebri come Starman di David Bowie e sul finale si può ascoltare l’immortale Michael Jackson in Thriller. Lo spettacolo ha una sua dinamicità che viene ben supportata dalla recitazione scattante e frenetica (su input della regia) degli attori, ognuno dei quali sa esprimere bene il disagio interiore che li vede più “alieni” della loro ospite extraterrestre. Il registro ironico è fortemente caratterizzante e dato anche dalla scelta dei costumi, dalle vibrazioni emanate nei dialoghi a senso unico.

Sembrano marionette mosse da fili invisibili costrette a compiacere il burattinaio che si cela dietro la loro stessa anima e si diverte a ribaltare spesso i ruoli. Accade così che la condizione di umiliazione per essere e sentirsi usato si trasformi in godimento nel poterlo fare ad altri. L’omosessuale e la prostituta, il militare e il pregiudicato sono ancora una volta lo specchio di una società che si rivolta contro i propri simili e a quel punto non c’è più differenza. Da vittima passi a carnefice e viceversa. Vista da fuori, con gli occhi di Phoebe Zeitgeist, il nostro mondo non ha nulla di cui si possa invidiare e Fassbinder lo aveva capito anticipandolo quando scrisse il suo testo nel 1971.

Tutto è cosi aleatorio da galleggiare sulla superficie di una società che si sta  anzi si è già liquefatta, resa bene dal progetto che vede tra gli altri  interpreti perfettamente aderenti al disegno registico, Francesca Mazza in una delle sue interpretazioni più riuscite che fanno del suo personaggio, una delle figure più emblematiche di tutta questa saga così surreale proprio perché fin troppo vicina alla realtà.  Arcuri infarcisce la scena di rimandi concettuali, estetici e culturali, creando una sorta di babele iconografica dove appaiono citazioni di un’America anni ‘ 70, la televisione che mastica tutto e molte icone di una pop generation che rendono questa versione di Sangue sul collo di un gatto un esperimento ben riuscito. E alla fine il morso sul collo dei protagonisti creano un finale ad effetto molto suggestivo. Da derelitti umani si trasformano in zombie con la bava alla bocca e si avvicinano pericolosamente alla ribalta verso il pubblico. Tutti insieme per dirci che basta un morso per finire in quella inutile e perdente condizione di aberrazione umana. Uomo o zombie non fa differenza. Tutti bravissimi tra cui si distinguono Fabrizio Croci,  Matteo Angius e  Emiliano Duncan Barbieri

 

 

Sangue sul collo del gatto visto al Festival We Folk ! di Dro il 24 luglio 2012

 

Rainer Werner Fassbinder

traduzione: Roberto Menin
regia: Fabrizio Arcuri
con: Miriam Abutori, Michele Andrei,Matteo Angius,

Emiliano Duncan Barbieri, Gabriele Benedetti,

Fabrizio Croci, Pieraldo Girotto, Francesca Mazza,

Fiammetta Olivieri, Sandra Soncini

luci: Diego Labonia
scene: Andrea Simonetti, Aldo Baglioni
video: Lorenzo Letizia
assistenza e costumi: Marta Montevecchi
organizzazione: Rosario Capasso
cura: Valeria Orani
produzione: Accademia degli Artefatti
co-produzione: “Festival Post Paradise fassbinder Now”, Residenz Theater/Marstall Theater

 

 

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