Teatro, Teatrorecensione — 10/04/2016 at 14:06

La sferzante parola di Testori rivive nelle voci della “Monaca di Monza”

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MILANO – “Libera nos a malo” è la tacita supplica, che lascia nel cuore – e nello stomaco -, la visione di questo “La Monaca di Monza” di Giovanni Testori. La messa in scena di Yvonne Capece e Walter Cerrotta, infatti,  ci mettono sull’avviso fin da subito la pungente non alterità.  La vicenda è circostanziata a un’epoca lontana e differenti sono le dinamiche di coercizione; eppure non ci si può non sentir chiamati in causa da quel racconto così vivo e sanguigno, in cui fede e carnalità, obbligo e ambizione, ma soprattutto il tentativo di pacificarsi nel ruolo sociale imposto e l’evvivadio irriducibilità di una natura fiera e pulsante non allentano per un solo istante il loro corpo a corpo. E’ la lingua, anzitutto, che lo sostiene. La parola di Testori qui è pura, alta, letteraria e cionondimeno densa, grumosa e forte. Sferzata a colpi di ossimori e sineddoche, tracima in nodi di senso. Segue filoni sotterranei e paralleli. Sono quelli della sfida a Dio – a quel “Verbo che si è fatto carne e ora la carne chiama in giudizio Te, Dio!” – e dell’insufficienza testimoniale della parola. “La carne fatica troppo a diventare parola… che luce posso mai sperare di aver gettato?”, conclude la sventurata, che all’inizio aveva già alluso:

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Per quanto si parli, alla verità delle viscere non si arriva mai. Si sarebbe dovuti nascere di pietra o non nascere affatto per esser certi di non mentire”. Ha molto di shakesperiano: quella stessa malinconia dell’erede al trono di Elsinor, vinto non tanto da un romantico ripianto per la vita da letterato a cui è stato strappato, ma divorato dalla passione per una giustizia che non è data. E così pure Virginia – questo il nome monacale di Marianna De Leyva -, irrompe in quel laio: “Dov’è, la Giustizia? Dov’è, la Pace?”,  che immediatamente rimanda al salmo 84, dove invece: “Misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno”, si dice, nel giorno in cui il popolo di Dio si riconvertirà e il suo Signore abbandonerà la propria ira per tornare ad accoglierlo. Qui no. Non ci sono né pace, né giustizia nella vita della suora, come non ce ne sono state mai, del resto, nell’esistenza che lei stessa ripercorre, per rapide tappe e vivide suggestioni. Per lei non c’è mai stata la giustizia di uno sguardo capace di riconoscerle quell’umano diritto di esistenza, da sempre negatole – Se “la goccia si è fatta carne”, nonostante non fosse la prole, quel che il padre cercasse, ma solo uno sterile appagamento, non ha generato l’agognato maschio;e così quel maschio, che non avete avuto voi, io ho cercato di esserlo”, dice -; per lei mai neppure la pace o la pacificazione, sia pure, nell’abbandonarsi ad una situazione ancorché impostale. E così non fa specie l’apparente bestemmia di quel: “l’inferno è qui, dove prego” e dove “il profumo dei gelsomini” s’insinua sottile come una lusinga, sprofondandola nella tentazione della vita carnale. “Una bestia priva di raziocinio avrebbe pianto più a lungo...”, dice Amleto a proposito del troppo breve lutto portato dalla madre Geltrude per la prematura morte del marito. E forse non è un caso che Geltrude sia pure il nome di quella Monaca di Monza, che segna uno dei più potenti cammei de “I promessi Sposi”. Di fatto “bestia” è un epiteto con cui spesso apostrofano e vengono apostrofati, Virginia a il suo amante. E’ lo stesso Gian Paolo Osio a raccontarci di quel loro “amore cieco e lucente come quello delle bestie”, che se tanto ricorda la passione dantesca di Paolo e Francesca, amaramente conclude nel: “Che cosa siamo, in fondo, noi, se non bestie doloranti?”.

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Ecco: è tutto questo, credo, che fa sentire lo spettatore comunque coinvolto in quell’intrigo di amore, sesso e potere, che con altre tinte e ben più svolazzanti motivazioni avrebbe potuto planare sulle pagine leggere di un romanzetto “Armony” o sulle immagini patinate di una qualsiasi soap opera. E invece no: e sta qui il peso specifico dello sguardo di chi scrive, quand’è capace di andare in affondo verso l’essenziale che ci accomuna.

Se questo è il sostrato letterario, Yvonne Capece e Walter Cerrotta ben lo restituiscono in scena. Creano una situazione sospesa e rarefatta, dominata dai fumi, pure in senso figurato, dell’incenso e della nebbia e la animano con tagli di luce che, lungi dall’illuminare l’ambientazione spoglia ma tetramente barocca, immediatamente amplifica la simbolica valenza monacale e claustrale. Anche la scelta recitativa è interessante: alla sola voce umana, per citare Cocteau, della monaca, interpretata da Yvonne Capece dalla fisicità viscerale tutta partenopea, fanno da controcanto le voci di tutti i suoi demoni. In parte rievocati da inquietanti bisbigli fuori scena, in parte sustanzializzati nei due personaggi cardine della vicenda – l’amante Gian Paolo Osio e la conversa Caterina Cassina Da Meda -, sono lasciati all’eclettica interpretazione di Walter Cerrotta, generoso ed efficace, specie nella suggestiva interpretazione della conversa. Suggestive anche alcune azioni sceniche, quella della conversa, appunto, come quell’ultimo “ballo” fra gli amanti che a poco a poco muta la dolcezza del primo approccio in una ripetitività sempre più obbligata e disfunzionale, capaci di raccontare pur senza dire nemmeno una parola – realizzando, in parte, quella brama di testimonianza, pur nell’indicibilità della parola, stigmatizzata dallo scritto di Testori.

Visto al Teatro Sala Fontana di Milano, sabato 9 aprile.

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