Teatro, Teatro recensione — 09/05/2017 at 20:44

“Democracy in America”: concentrato di minimalismo in massima distillazione

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PRATO – Saggio complesso e per alcuni versi superato anche data la distanza secolare, La democrazia in America, scritto dall’enciclopedico studioso francese Alexis de Tocqueville, è ancora oggetto di studio universitario in Europa, almeno per quanto riguarda la scienza della Sociologia di cui lo studioso è riconosciuto fra i fondatori. Romeo Castellucci, coautore assieme alla sorella Claudia della transcodificazione per la scena del famoso saggio, non è certo nuovo a intraprendere operazioni culturali che sfidano l’impossibile e con questa prova d’autore incassa quindi un ulteriore dimostrazione di coraggio, tesa a lasciare il segno inconfondibile della sua ricerca artistica. Ma alcuni temi trattati da Tocqueville, reduce da un viaggio in America nel 1831, da cui ha tratto materiale vivo per stendere il suo fortunato studio, sono ancora in parte attuali: le basi su cui si fonda la Carta Costituzionale degli Stati Uniti d’America, applicate alla storia di quegli Stati- almeno quelli del Nord, che come tutti sappiamo hanno proprio nelle comunità di molte nazioni europee la propria origine fondativa multietnica, sociologica, linguistica e religiosa.

 

foto di Guido Mencari

 

Le basi della Democrazia, come la migliore fra le forme possibili di governo (per il momento non ne spuntano all’orizzonte altre a garantire il massimo della libertà di partecipazione alla vita sociale e politica dei singoli cittadini), sono trattate da Tocqueville toccando argomenti scottanti ancora in discussione nei nostri Stati europei, come per esempio il principio di uguaglianza (quale uguaglianza? A sinistra si discute ancora e ci si accapiglia col centro e con le destre sul tema come eguaglianza delle basi di partenza). Altro argomento toccato da Tocqueville è quello della Democrazia come dispotismo della maggioranza (idea cara per esempio a gruppi come lo statunitense Living della compianta Judith Malina). Oltre, e qui si nota la sua lungimiranza, si ventila l’ipotesi della novella Democrazia americana come possibile costruzione di una società conformista e massificata. Ben pochi di questi temi (li abbiamo volutamente ridotti all’osso perché il saggio è ponderoso), ai quali i Castellucci si sono “liberamente ispirati”, sono tratteggiati nella drammaturgia in Democracy in America, visto al Teatro Metastasio.

foto di Guido Mencari

 

O meglio: se ne ravvisano tracce qua e là dentro un lavoro teatrale di efficace polemica politica e sociale. Come accade in sperimentazioni drammaturgiche liminari multi-codice non si poteva che puntare all’estratto secco della struttura narrativa, rispetto al saggio datato 1835. E di qui partiamo dall’analisi della visione scenica. Ben diciotto le attrici-danzatrici. Abbondante l’uso di musiche e suoni elettronici (a cura del musicista statunitense Scott Gibbson), in sinergia con effetti di luci, proiezioni-video in pieno stile consueto alla pratica scenica della storica Compagnia di Cesena. Il tutto si regge dentro un concentrato di minimalismo in massima distillazione rispetto al soggetto d’ispirazione. Si parte da una scena aperta dove le diciotto danzatrici sfilano come in parata militare in divisa, ciascuna con una lettera dell’alfabeto che sventola a forma di bandiera a comporre il titolo dell’opera Democracy in America. Soldatesse o femministe amerikane? Le lettere si scambiano di posto, attraverso i corpi delle donne, per creare in forma di anagramma con motti e nomi di alcuni Paesi nel Mondo che sono o sono stati Teatri di guerre. Già dall’incipit c’è molto di concettuale e simbolico. La parte più consistente arriva dopo. In due distinti quadri. Nel primo una coppia di coloni, coltivatori appartenenti a comunità religiose fondamentaliste, quelle che hanno fondato, almeno in parte, l’America: i coloni puritani legati a società contadine autoctone.

foto di Guido Mencari

La lotta per il pane-nella fattispecie le patate, è improba. L’aratro è l’attrezzo che procura cibo e quindi futuro. La povera donna non regge l’affronto del mancato raccolto e si scaglia contro quel Dio su cui si fonda la sua fede e quella della comunità d‘appartenenza, mentre il marito si affida comunque alla Bibbia. La donna, con uno dei tre figli portato sulla schiena dà segnali di pazzia mentre esce di scena trascinandosi dietro l’aratro. E qui parte una video proiezione di macchine con bracci meccanici in sospensione. Da questo triste episodio al femminile parte una proiezione simbolica su quella che è stata la Rivoluzione industriale e ricorda qualche fotogramma di Metropolis. Entrano in scena altre donne che sbattono violentemente le chiome su una specie di altalena con una gestualità secca violenta. Non salgono e mai saliranno a dondolarsi su quell’altalena perchè nessun piacere è dato loro. Una si denuda e si macchia di vernice rossa. Perché a livello simbolico la Francia è la Marianne mentre l’America è la Statua della libertà, Donne-simulacri fortemente allegorico- simboliche in questo lavoro e mai vittoriose. Donne succubi di un Potere politico, militare o civile o religioso subito sulla propria pelle. Nel terzo passaggio e quadro finale si passa dalla passività necessariamente autodistruttiva della contadina colona che non ha né strumenti intellettuali né economici per opporsi al destino, alla rappresentazione di uno dialogo fra indigeni, Indiani d’America.

 

 

Qui il tema dell’inclusione urla sonnecchiando dentro una conversazione ammaestrata e sorvegliata, fra una coppia in cui l’uno prova a insegnare a tradurre all’altro, il vocabolario bilingue indio-anglosassone. Mentre sappiamo bene che gli Indiani d’America sono stati sterminati. E si finisce coi due corpi scuoiati mentre un telo cala dall’alto regalando un effetto flou sui corpi delle attrici-danzatrici. Ma è questa la democrazia dell’America? È anche questa, sembrano suggerirci i due autori. Fondata anche sulla violenza e sul corpo delle donne. Il lavoro è in tournée internazionale.
Liberamente ispirato a Democracy in America di Alexis de Tocqueville

Testi di Claudia e Romeo Castellucci

Compagnia Societas Raffaello Sanzio

Musica Scott Gibbson

Regia, scene, luci e costumi Romeo Castellucci. Con Olivia Corsini, Giulia Perelli, Gloria Dorliguzzo, Evelin Facchini, Stefania Tansini, Sophia Danae Vorvila
Irene Bini, Sara Bolici, Mariagiulia Da Riva,
Laura Ghelli, Virginia Gradi, Giuditta Macaluso, Sara Manzan, Sara Nesti, Cristina Poli, Elisa Romagnani, Irene Saccenti, Fabiola Zecovin
 
produzione esecutiva Socìetas
in coproduzione con deSingel International Artcampus; Wiener Festwochen; Festival Printemps des Comédiens à Montpellier; National Taichung Theatre in Taichung, Taiwan; Holland Festival Amsterdam; Schaubühne-Berlin; MC93 Maison de la Culture de Seine-Saint-Denis à Bobigny con Festival d’Automne à Paris; Le Manège – Scène nationale de Maubeuge; Teatro Arriaga Antzokia de Bilbao; São Luiz Teatro Municipal, Lisbon; Peak Performances Montclair State University (NJ-USA) con la partecipazione di Théâtre de Vidy-Lausanne e Athens and Epidaurus Festival
Visto in prima nazionale al Teatro Metastasio di Prato, il 30 Aprile 2017

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