Teatro, Teatrorecensione — 09/04/2014 at 08:37

C’è sempre qualcuno più furbo del furbo

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FIRENZE – Come sempre i lavori di Alessandro Riccio (tornato a Firenze dopo un anno di tournée con lo Stabile del Veneto, impegnato ne “L’ispettore generale”) hanno molteplici possibilità di lettura. Più strati come il mille foglie, più piani come un grattacielo, più livelli di ascolto, tutti intrisi di quel brigare, di quel burloneggiare sguaiato, di quel colorato e popolare modo di raccontare la realtà andando a pescare nel nostro, più o meno recente, passato. “Pane e volpi” è un epiteto toscano per definire, ironizzando e ridendo di e non con, colui che si credeva furbo ed invece è stato beffato. Chi va per suonare e poi è stato suonato.

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L’intreccio è architettato da questa coppia di ladri e truffaldini da quattro soldi, Gatto e Volpe pinocchieschi (lei è guercia), che si introducono notte tempo in una ricca abitazione per svaligiarla ma verranno sorpresi da un’anziana arzilla alzhaimerizzata, disco rotto come Dori il pesce smemorato che accompagna il padre di Nemo alla ricerca del celebre pesciolino rosso con la piccola pinna offesa. Ci si può leggere la riflessione millenaria sulla furbizia del popolo nei confronti dei padroni, Arlecchino, si può scorgere l’affetto per le fasce di popolazione più datate, gli anziani visti non rifiuti ma ancora pozzi di saggezza che possono mettere in castagna e in scacco gli arroganti con meno decadi sulle spalle, oppure ci si può vedere una grande storia d’amore, che tra mille difficoltà, intellettive, caratteriali e fisiche, alla fine trionfa. O ancora una dura e netta presa di posizione contro la violenza sulle donne: “Quale donna non si sente in pericolo per il solo fatto di essere una femmina?!”

Atmosfere da Oliver Twist dove, in una scena ricca e colma e piena e barocca come accade nelle produzioni di Riccio e soci, ben si notano le differenze di ceto e classe, dai costumi alla postura, dal gergo usato alle movenze, dal decoro allo sciatteria. Povertà e ricchezza qui fanno i conti sullo stesso tatami della vita. Riccio è il cialtrone scassinatore, becero e volgare, boccaccesco e sfrontato, l’orba è Monica Bauco piratessa dalle gonne larghe zingaresche, ora dolce adesso minacciosa, ora cinica ora desiderosa d’affetto. L’incrocio tra queste due figure-personalità, immerse nel guado della necessità e dell’ignoranza, l’odi et amo continuo, l’elastico di attrazione e repulsione, sono l’innesco per le continue micce disseminate nel testo pirotecnico, cosparso di frecce appuntite ed acuminate di lampi di divertimento. Insieme si aiutano dove l’altro non ci arriverebbe, hanno bisogno l’uno dell’altra, compensano le mancanze: chiamalo amore.

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Il terzo incomodo (Fiorenza Brogi grande signora del teatro, elegante e seria con le sue voci neutrali, alla maniera di Franca Valeri, scatena l’entusiasmo della platea) invece è il crack che rompe l’incantesimo, la pagliuzza nell’occhio, il classico bastone tra le ruote che spezza un quadro perfetto ma troppo bello per essere vero: un’innocua signora un po’ tarda che ripete le stesse frasi all’infinito che ci ha ricordato Miss Marple di Agatha Christie come la proprietaria del pappagallino Titti, l’anziana non vedente della pellicola “Smoke” che sa benissimo che quello che sta ospitando per pranzo è uno sconosciuto ma che finge per solitudine che sia il figlio. Una dolce vecchietta. Atmosfere da Stibbert e Bardini e Vieusseux. Arie che ricordano “Profumo” di Suskind. Povere volpi dalle code incendiate, poveri lupi che devono crepare a tutti i costi, poveri dog troppo hot. Una favola noir come gli ori e leggera come i baci.

Pane e volpi”, produzione Tedavi ’98. Uno spettacolo scritto e diretto da Alessandro Riccio. Con
Alessandro Riccio, Fiorenza Brogi, Monica Bauco. Costumi Dagmar Lise Pedersen Mecca. Sarta Daniela Ortolani. Elementi scenici Isabella Barreca. Responsabili di produzione Lorenzo Ridi, Monica Sperandio. Visto al Teatro di Rifredi, 8 aprile 2014.

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