Teatro, Teatrorecensione — 08/11/2015 at 12:18

Sono “Donne gelose” dark e intrise di amarezza

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MILANO –  “Le donne gelose” di Carlo Goldoni, è’ un allestimento essenziale, giocato nell’alternanza di due luoghi, sostanzialmente “camera di...”, come puntualmente avvisa la proiezione sulla parete – lapidaria e verticale; una spada di Damocle sospesa – e poi, sul fondo, le calli di una Venezia lugubre e tetra, nonostante le vicende siano ambientate durante il carnevale.  Il regista Giorgio Sangati, infatti, inscatola la narrazione in asfittiche camere piccolo borghesi, evocate su una piattaforma, spinta a centro sala come sotto la lente d’ingrandimento di un super spettatore. E’ qui che, di volta in volta dimora di questa o di quella delle tre dame in contenzioso, si agitano le vicende, svelandosi, ma poi anche ammantandosi del livore dell’equivoco, a seconda dei casi.  La storia esordisce col racconto di come due comari, divorate dalla gelosia per i propri mariti, travisano le loro frequenti visite a una ricca vedova, senza conoscerne i reali moventi.

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Sono una lo specchio dell’altra. Lo raccontano bene anche i costumi: verde veneziano per Giulia/Valentina Picello, moglie del Sior Boldo/Paolo Pierobon, l’orefice e un rosato rosso corallo, altrettanto smunto e complementare, per Tonina/Marta Richeldi, moglie del merciaio Todero/Leonardo De Colle. Ciascuna si specchia nell’altra nel centellinare il sottilmente sadico esercizio della pietà – ciascuna convinta di sapere, a riguardo del marito dell’altra, cose che son poi le stesse che la rivale pensa di sapere su di lei e che si sente egualmente in dovere di tacere. Per tutto un primo lungo tempo, dunque, la scena si svolge nella cineseria dello scambievole rituale delle visite di cortesia fra le due dame. Ciascuna è intenta a ostentare un ipocrita e borghese tutto per bene, mentre argutamente il regista scegli di farli affiorare da una scala proveniente da una botola, gli altri personaggi, quasi a suggerirci l’idea di un’emersione subconscia. Così, via via le due prendono confidenza e consapevolezza, fino alle scene in cui gli abiti si mescolano – ognuna finisce con l’ammantarsi con lo scialle dell’altra a restituire anche cromaticamente l’identificazione dei due destini. Ma la “camera” è anche quella di Lugrezia/Sandra Toffolatti, ingabbiata in un abito nero dall’evidente stridore rispetto alla carica vitale certo sconosciuta a Giulia e Tonia.

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Forse è questo che le rende gelose: “Sapete perché siete gelose? – le apostrofa in uno momento di confronto diretto – Perché siete brutte!”, sentenzia, grifagna. E centra il bersaglio. In fondo quel che fa, qui Goldoni, è tratteggiare due prototipi differenti di donne: da una parte quelle sottomesse e astiose, che barattano la tranquillità sociale e apparentemente economica con una subordinazione senza possibilità di appello fino alle percosse; dall’altra questa donna intraprendente, costretta a far di necessità virtù. Certo che trama e ostenta una sprovvedutezza, che non le appartiene, ma in fondo sa e rivendica di essere una donna onesta. “Male non fare e paura non avere”, è una delle prime massime, con cui si presenta. E se questa società, piaccia o non piaccia, è resa viva e vitale dalle presenze femminili – Giulia, Tonia e Lugrezia, certo, ma poi anche Chiaretta/Elisa Fedrizzi, figlioccia di Giulia e Orsetta/Sara Lazzaro, sua nipote, oltre alla madre/Federica Fabiani -, le figure maschili risultano forse ancor più caricaturali, dibattute come sono fra l’istituzionalità del ruolo chiamato a ricoprire – non solo l’orefice, il mercante, ma anche il giovinotto, Baseggio/Ruggero Franceschini, e il facchino Arlecchin/Fausto Cabra – e la loro effettiva pochezza, che solo fra le mani della vedova nera affiora in tutto la sua disarmante miseria.

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Dunque una doppia invettiva, quella del commediografo veneziano: sia quella contro l’anacronismo di ruoli e consuetudini sociali evidentemente sorpassati, che quella contro una crisi economica così sottilmente diffusa e generalizzata, da non risparmiare neppure i più insospettabili, rendendoli vittime di illusioni e superstizioni facilmente cavalcabili da persone più scaltre, quali, appunto, Lugrezia. Come non vedere, in ciò, un rimando ai nostri giorni?, Nonostante gli abiti colorati – eppure tutti bordati da una sbavatura nera, quasi una banda a lutto; così come sbiancati sul fondo, sono invece gli abiti neri: in ambo i casi a sottolineare una decadenza – e nonstante la vivacità ritmica e la bravura degli attori – fra tutti spiccano certo Pierobon e la Toffolati, ma anche una Valentina Picello e un Fausto Cabra, che sembrano tagliati appositamente per i rispettivi ruoli -, forse il persistere di quell’atmosfera cupa e asfittica pur in un contesto carnecialesco, in altro modo non si può spiegare che assumendo l’ipotesi che si tratti di un effettivo lamento funebre. La Serenissima muore e mentre già si grida: “Viva il re!”, il regista sembra volersi indugiare ancora un istante su quel mondo, che ci restituisce attraverso scenografie lineari, essenziali e torve.

Un ultimo momento di cordoglio, che è forse lo stesso per questa nostra società.  La pièce si dipana inverando i topoi della scrittura goldoniana: i personaggi hanno una colorazione caricaturale, che è sì commedia dell’arte, ma già corretta da quella riforma che intendeva donar loro una maggior plasticità psicologica; gli “a parte” continuano nel gioco codificato di alleanza narrativa col pubblico, esplicitando loro le macchinazioni dei personaggi o mettendoli a compartecipazione delle riflessioni; le maschere, coprendo i volti, svelano e liberano la fisicità espressiva degli attori; e il dialetto si fa lingua – non a caso, questa, la prima commedia goldoniana in veneziano, qui la si dota di sovra titoli, così da non perdere la preziosità di quelle parole, pur fornendo al pubblico uno strumento di comprensione del testo. Il finale ha un gusto destrutturante: i personaggi vengono liquidati, tutti, alla spicciolata, come restituendoli al loro destino. E quando il tutto resta vuota, tacitamente si riempie di quelle domande sull’oggi, che forse giustifica la rivisitazione di un testo apparentemente tanto lontano.
La lezione ronconiana continua?

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Le donne gelose di Carlo Goldoni

visto il 24 ottobre 2015

In scena dal 22 ottobre al 22 novembre al Piccolo Teatro Studio di Milano,

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