Teatro, Teatrorecensione — 08/02/2014 at 01:21

Savelli-Malvaldi: “La carta più alta” non è l’asso pigliatutto

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FIRENZE – La bellezza di un libro come oggetto non può prescindere dal suo contenuto. Non c’è infatti sopruso maggiore di un libro stupido rilegato lussuosamente”. (Ennio Flaiano, Appunti)

A volte non ci spieghiamo proprio alcuni fenomeni. Rimaniamo esterrefatti, senza risposte, esausti, senza energie, principalmente. Fenomeni televisivi, cinematografici, teatrali, perfino letterari. Quindi, dopo aver messo da parte le ritrosie verso i gialli di casa nostra, che vengono chiamati senza convinzione noir e che impunemente, bestemmiando, fanno riferimento e tentano di citare o prendere a riferimento Simemon, ed avendo letto le pagine (tutte!) de “La carta più alta” di Marco Malvaldi, dal quale è stata tratta la riscrittura e l’adattamento da Savelli Senior per Savelli Junior, ci siamo posti due quesiti. Il primo: perché una casa editrice come la Sellerio, che si fregia di pubblicare anche Camilleri, abbia acconsentito alla stampa di storielle di paese infarcite da una parte di tecnicismo esasperante e dall’altra di vagonate di volgarità, oscenità, sconcezze e trivialità. Il secondo è se l’autore non poteva continuare a confrontarsi con la chimica. Misteri della fede. Miasmi, più che altro.

Partendo proprio dalle parole nel libro: “Il nostro tempo su questa terra è limitato. A leggere tutti i libri che sono al mondo io non ce la farò mai. Quindi non voglio perdere tempo a leggere troiate” (pag. 68). I romanzi del pisano Malvaldi si aggrovigliano tutti attorno al gioco delle carte e intorno al gruppetto, denominato con infiniti epiteti i più simpatici, senza ironia, sono “renitenti alla tomba” o “iene rincos”, di quattro anziani, pensionati che lo aiutano a risolvere i casi. Insomma danno l’incipit vinti dalla noia, danno il la alle illazioni, alle elucubrazioni per poi farle concludere dal barista. Ce n’è stata anche una versione in stile fiction andata in onda su Sky: Massimo il barista era il prezzemolo Filippo Timi, poi si notavano Paolo Cioni, passato adesso dal trattamento pinocchiesco di Ugo Chiti, Massimo Paganelli, ex direttore di Metastasio, di Armunia, e Carlo Monni, in una delle sue ultime apparizioni prima della scomparsa. Regista Eugenio Cappuccio, uno che ha lavorato con Fabio Volo e Cristiana Capotondi, Emilio Solfrizzi e Belen Rodriguez. Tanto per dire.

In definitiva tutta quest’aurea di capolavoro nell’aria non c’era. Come dire che la Signora Fletcher se li mangerebbe a colazione questi vecchietti attempati. Scordatevi i quattro assi, oppure i quattro amici al bar, tanto meno Amici Miei in salsa contemporanea. Anche perché, va detto, Pisa non è certo Firenze. Fenomeno da mezzo milione di copie vendute, in totale come autore, ma con molti punti di sospensione. Un locale, il Bar Lume, che è un inno ed un ritorno, anche ingenuo e bucolico, alle vecchie Case del Popolo ormai o chiuse o in disuso, quelle dove ancora stanno appese alle pareti le bandiere del P.c.i., ingiallite ma da sole fanno resistenza, almeno all’occhio.

Dubbi sul volume: i nomi impronunciabili delle due figlie del presunto assassinato: Kinzica e Lagia, che non vengono toccati nemmeno nella trasposizione sulla scena, o ancora un’ignoranza che si taglia a fette e che si percepisce concreta nelle espressioni degli arzilli ottuagenari che però cozza con i libri che portano all’ospedale al barista azzoppato. Roba come L’Ecclesiaste e Lucrezio, Kafka, Voltaire, Seneca, Borges, Kierkegaard. Credibile solo Boccaccio. Tra le altre incongruenze l’abbuffata che si organizza il protagonista il giorno prima dell’operazione al ginocchio quando il digiuno è obbligatorio.

Discordanze invece tra carta stampata e resa scenica: nel libro Aldo è il nonno di Massimo, in teatro è lo zio, e ancora l’infortunio del barista al crociato (come i calciatori, la Fiorentina grande passione di Andrea Bruno Savelli, il trauma sembra ricordare quello di Mario Gomez) nel volume è causato accidentalmente da una radice in un bosco mentre Angelo Savelli lo ha ricondotto ad una scarpata tirata da una delle figlie in un moto d’ira (Giovanna Brilli molto sopra le righe) dell’industriale deceduto venti anni prima. Nelle parole di Malvaldi il protagonista è alto un metro e sessanta, Andrea Bruno Savelli è un pezzo d’uomo, con tutto quel che segue e che comporta a livello di fisicità, consapevolezza, forza nell’affrontare le situazioni.

Tra i quattro anziani Sergio Forconi (famoso al cinema per essere stato “il babbo del Pieraccioni”) e Raul Bolgherini che hanno, ma soprattutto hanno avuto, una grande rilevanza nel vernacolo e nel riproporre (il Teatro Nuovo, in zona Pignone, è sempre strapieno) le commedie consolatorie del dopoguerra che, evidentemente, vanno ancora forte e sono apprezzate dal pubblico agée, per intenderci quelle dove ancora si parla di leva militare, si cade nel qui pro quo, nella presunta omosessualità, donna è sinonimo di casalinga, e sono ancora aperti i casini pre legge Merlin: ad esempio “Ossibuchi e palle d’oro”, “Gallina vecchia” o al massimo “L’acqua cheta”.

I detective improvvisati mostrano la consunzione del tempo, come macchine troppo rodate. Tra loro si salvano, con il mestiere Bolgherini, con la faccia e la carriera Forconi. Gli altri due stonano fuori dal coro. Massimo Grigò, fior d’attore, prima è una macchietta padana molto vicina a “Simone” di Panariello, dopo, decorosamente, è il medico che aiuta le indagini. Il paese Pineta che tanto ricorda una discoteca sulla riviera romagnola. Nel ruolo della bellona la ben inserita Caterina Carpinella, “membro della segreteria cittadina del Pd con delega alla cultura”, instancabile pasionaria renziana della prima ora e fondatrice dell’Associazione Cultcube, che a Firenze organizza il “Festival In Migrazione” al Teatro delle Spiagge ed il Florence For Fringe, sostenuta dal Teatro della Pergola. Inspiegabilmente con due seni come mongolfiere, neanche si fosse sul set di Tinto Brass, ed il braccio sempre appoggiato sulla vita, i fianchi verso l’esterno, un po’ Mirandolina un po’ Mussolini a Piazza Venezia. Forse, per il noir a teatro, non sono più i tempi di Agatha Christie.

La carta più alta” di Marco Malvandi, riduzione e adattamento di Angelo Savelli, regia di Andrea Bruno Savelli, luci Alfredo Piras, scene e costumi Michele Ricciarini, produzione Compagnia del Pepe, Pupi e Fresedde – Teatro di Rifredi. Con: Andrea Bruno Savelli, Sergio Forconi, Giovanni Lepri, Raul Bolgherini, Giovanna Brilli, Massimo Grigò, Caterina Carpinella, Filippo Rak, Luca Corsi. Visto al Teatro di Rifredi, Firenze, il 6 febbraio 2014.

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