Teatro, Teatrorecensione — 06/07/2016 at 21:45

“Immensa” prova d’artista di Laura Marinoni

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MILANO –L’amore ai tempi del colera”, romanzo del Premio Nobel Garcia Marquez, dopo la trasposizione cinematografica del 2007 a oltre vent’anni dalla pubblicazione, diventa recital teatrale. “Operita musical per cantattrice e suonatori”, specifica il sottotitolo; in scena, infatti, l’immensa Laura Marinoni è accompagnata dai due musicisti dal vivo Alessandro Nidi e Marco Caronna, regia di Cristina Pezzoli.

Se il corposo romanzo evocava un mondo complicato, affollato da una miriade di personaggi e capace di toccare una vasta gamma di emozioni declinate all’interno dello spettro che va dalla rivalsa sociale al tema romantico, la scelta che si fa qui è precisa e mirata. Condensata e ripetuta in tre momenti topici, recita: “I sintomi dell’amore sono gli stessi del colera”. Leggi: “Febbre, tremori e prolassi gastrointestinali”. Così, con guizzo ironico e focus ben definito, si sceglie di raccontare la stupefacente storia del perdurante amore di Florentino Ariza per Fermina Daza, sospeso per “53 anni, 7 mesi e 11 giorni con le loro notti”, a causa del matrimonio di convenienza di lei, impostole dal padre con il buon partito Juvenal Urbino, medico.

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In scena i due musici e poi tutto un accampamento di secchi di alluminio di varie fogge e dimensioni, alcuni a terra, altri sospesi, quasi a scongiurare quel “far acqua da tutte le parti” della situazione. E’ lo sgocciolio, infatti, il suono che dà il ritmo e la misura all’incipit; e poi, dal mezzo di un separé fatto di corde spesse, di quelle che legano, sì, come le cime degli ormeggi, ma che qui poi scendono libere e liberatorie, ecco affiorare lei, Laura Marinoni. Quasi una danza quel suo snocciolare dense e suadenti parole in spagnolo. Quasi un alludere, la scenografia, a legami forse più faceti e sciolti di quanto non si vorrebbe ammettere; al punto che, a proposito della coppia che pur ha ormai superato il giro di boa delle nozze d’oro, immediato s’insinua il dubbio se quella “servitù d’amore” sia fondata sull’ “amore” o sulla “comodità”. E’ tutto gioco, leggerezza e ironia: dal rapporto dell’ottuagenario medico a riposo col suo pappagallo ammaestrato, all’esilarante incidente che pur gli fu fatale; e se l’atmosfera si condensa in passaggi intensi e delicati, resi con parole attente e preziose come quel “dolore irripetibile di morire senza lei”, a cui fa da controcanto il di lei “dormire singhiozzando”, di fatto non si perde mai quella nota leggera e ironica, che, mixata alle canzoni Caribe, scolora fra passione e struggimento, temperamento, emozione, gelosia, testardaggine e pertinacia, ravvivate dalle incursioni soul, flamenco e pop.

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E’ un’artista completa, Laura Marinoni, che se in quanto attrice possiede e sfodera meravigliosamente il suo strumento vocale, da cantattrice, non di meno gioca con gli acuti delle interpretazioni più ironiche, ardite e surreali, così come con le note basse e dense di saudade delle canzoni più nostalgiche. E poi la fisicità, che gioca senza remore o falsi imbarazzi, scivolando dentro e fuori dai diversi personaggi. Basta un cambio d’abito o d’oggetto scenico ed eccola diventare l’innamorato Florentino o l’amata Fermina, la zia zitella di lei nel ruolo di agevolatrice dell’amore adolescenziale e solo epistolare fra i due, o Lorenzo Daza, padre sordo alle ragioni del cuore, ma attentissimo a quelle della scalata sociale, o, ancora, il dottor Juvenal Urbino, imparentandosi col quale l’arricchito commerciante di mule vede concretizzarsi il suo sogno di rivalsa. La scrittura certo è di quelle che non si leggono tutti i giorni, capace di mixare ironia e sagacia, ma anche dettagli preziosi e quasi impercettibili quali i polpastrelli avvizziti con cui l’ormai vecchio Florentino finalmente sfiora il corpo sfiorito dell’amata o la rudezza di lei nell’intimargli di non guardala spogliarsi: “Quel che vedrai non ti piacerà!”, sentenzia. Eppure la prossemica travolgente, ma consapevolmente elargita dalla mattatrice, è di non minor stra-ordinarietà, giocata in mille varianti, intenzioni, sfumature e scoppi, dentro e fuori dalla tenda di corde, diaframmatico uscio, di quelli tante volte visto a schermare e proteggere l’intimità delle case di molti paesi latini.

Assume presto la valenza simbolica della soglia inviolabile fra le parti sostenute dai personaggi interpretati e quel sancta sanctorum, al di là di cui non intravvediamo nulla se non il risultato di ogni nuovo trasformismo. “E’ che il teatro, qui è ancora di quello tradizionale”, sembra ci venga detto; così bel venga un unico personaggio a giocare i ruoli più disparati, ma poi “ultra leones” quanto a quel che davvero accade dentro alla scatola magica. E’ un po’ questa, la cifra della regia della Pezzoli, che poc’altro impone se non di ammaliare con una storia d’amore, ma di quelle che non t’aspetti, dove il ricordo tinge di luci blu cobalto, la vivacità sanguigna di un presente ormai lontano, e gli spasmi di quell’amore acerbo si fanno verdi come il colera. E poi tutta la struggente poesia della vecchiaia, età del rimorso ma anche della liberazione, quando non c’è più tempo perché “il non oso accompagni il vorrei, come il povero gatto del proverbio”, per dirlo alla Lady Macbeth, che si accende di scarlatto.

Eppure nonostante l’orchestrazione minuziosa di musica e azione, canzone, rumoristica e oggetti di scena, la regia spinge il fiume in piena Laura Marinoni nel sotto vuoto della quarta parete, facendocela arrivare nonostante tutto depotenziata, costretta com’è, a fingere che non sia lì, il suo pubblico. Anche la scelta della sala grande del Teatro Franco Parenti non aiuta: certo adatta ad accogliere il numeroso pubblico che l’attrice è in grado di richiamare, risulta, però, forse un po’ dispersiva per un prova d’attrice, che tanto si affida alla mimica facciale, Allora forse tanto vale chiudere gli occhi, se seduti troppo lontano dal palco, e lasciarsi cullare dal perfetto mix di cromature toniche di cantato, recitato e suonato, come fossimo comodamente sprofondati nella poltrona di casa ad ascoltare un radiodramma d’antan.

Visto al teatro Franco Parenti di  Milano, il 4 luglio 2016

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