MILANO – Sono tre, gli attori in scena in “Svenimenti”: Elena Bucci e Marco Sgrosso – regista, la prima, oltre che elaboratrice del progetto drammaturgico, insieme a Sgrosso – e Gaetano Colella, collaboratore storico della compagnia teatrale Le Belle Bandiere. Sono solo tre, ma riescono a restituirci un immaginario molto più variegato, che arriva fin a sdoppiare personaggi unici, nella scrittura cechoviana. E’ il caso del protagonista de “Sul danno del tabacco”. In dubbio se attribuirgli questi o quei tratti fisici, semplicemente lo si replica in ambo le variabili, accentuandone ora l’uno ora l’altro tratto fisico, tic emotivo o comportamentale – attraverso, anche, alla ridistribuzione alternata delle battute.
Questo è “Svenimenti” – il titolo allude alla reazione estrema dei personaggi, somatizzazione, spesso, della loro inadeguatezza. E’ un racconto prezioso e partecipato della biografia di Cechov attraverso i suoi atti unici – “La proposta di matrimonio”, qui, e “L’orso”, come pietre incastonate nei due tempi in cui si scandisce lo spettacolo -, ma poi anche di tutto quell’ordito biografico, che viene tratto dalle lettere alla moglie. Sembra di sentirlo, il cuore palpitante dell’uomo, così come del drammaturgo, che spiega modi e moti della sua creazione letteraria.
E ci parla di nuvole, la cui forma a lei ricorda quella di un pianoforte e questo diventa per lui impulso irrefrenabile ad annotarselo – “chissà, forse lo userò in qualche mio scritto”. Così non fanno specie, le parole di lei: “Come hai fatto ad immedesimarti così tanto in uomini, donne, bambini? Hai rivelato la nostra […] povera Russia, la gente… com’è.” “Come sono gelosa, come sono gelosa, Anton! Come hai potuto guardare così bene nel cuore di così tante persone…”. “’No, non essere gelosa, Olga – mi dicevi’ – ora è lei a dar voce al drammaturgo – Io ho dovuto descrivere, ho dovuto aprire la porta per comprendere me stesso, per capire loro, per capire il mondo. Per dare voce a quel sentimento che è mio: quel sentimento di profonda malinconia, che ti coglie nel veder passare la vita… e ti sembra di non far niente, di restare immobile e di riuscire ad acchiapparla per l’orlo della veste solo quand’è già scappata…”. Eccola, la struttura drammaturgica: un io narrante – Olga/Elena Bucci in un lunghissimo pastrano nero a disegnarne la sagoma, restituendoci sia l’immagine di lei, in quelle forme minute ed aggraziate e negli sprazzi di colore degli abiti femminili, che occhieggiano, da sotto la veste austera, che quelle del marito, nell’altissimo cappello a tuba e nei guanti bianchi. Forse è proprio questo, il dettaglio che meglio ne restituisce il ruolo: due mani mobilissime e svolazzanti, che ora sembrano planare, leggere, come quelle di un direttore d’orchestra, ora s’impuntano, quasi burattinaio.
E’ una ben precisa scelta registica, che immediatamente illumina il registro farsesco dei personaggi. Sembrano solo marionette, pupazzi dalla plasticità modulata e sorprendente – ottimamente resi dalla Bucci, Sgrosso e Colella -, e che ben restituiscono lo spirito dei vaudeville cechoviani. Quel che colpisce sono la mimica, la prossemica, ma anche il timbro ed i vocalizzi, che rendono questi personaggi curiosamente grotteschi e caricaturali, pur senza sfocarne il senso narrativo. E così ridiamo di gusto, di quelle situazioni paradossali e già votate allo scacco. C’è una coazione a ripetere, che inesorabilmente li condanna all’impossibilità del superamento; eppure c’è una disperata bramosia di rivalsa, che li fa sfociare in esiti imprevedibili – o, forse, solo nell’accomodante epilogo di chi non può sottrarsi alle umane passioni.
Anche scenografia e disegno luci, sostengono.
Le sequenze vengono giocate in due dimensioni, ad di qua ed al là si un sipario scandito nelle trasparenze di diaframmatici pannelli – che continuamente si alzano, si calano, si dipanano, agevolando il ritmo dell’azione scenica, con una leggiadria, che è cifra dello spettacolo. Così come le luci – azzurrina, nello spazio meta temporale a fior di sipario, spesso usato per raccontarci gli aspetti biografici e quasi meta teatrali; calda, pur nel suo surrealismo farsesco, quella che illumina il ‘teatrino’ tripartito, su cui si agitano gli inconciliabili personaggi degli atti unici. Le musiche – appena percettibili, in sottofondo, eppure evocativamente importanti – contribuiscono anch’esse all’effetto lievità. E tutto si risolve in una leggerezza che dalla risata risale al pathos – e, da questo, alla liricità di parole, che davvero ci sorprendono nella portata umana. Né mancano le pagine di teoria e polemica drammaturgica – l’eterna querelle con Stanislavskij e quel suo accanirsi nel restituire i personaggi cechoviani in modo quasi melo drammatico.
Ma, più che tutto, è l’elemento umano, quel che tiene la scena. “I miei personaggi […] mi sembra di poterli toccare”. E, ancora, quella struggente nostalgia mista al ‘bisogno dell’altrove’ – “A Mosca… a Mosca…”, salvo poi rimpiangere le gioie semplici della vita di campagna, come ne “Il giardino dei ciliegi” o ne “Il gabbiano” -, che fanno di Cechov un autore straordinariamente moderno.
Visto al Teatro Tieffe Menotti di Milano il 2 aprile 2015