MILANO – Credo che in pochi non abbiano mai sentito parlare di “Novecento” di Alessandro Baricco – scritto, che si lascia divorare con appetito attento e curiosità via via sempre più vivace e da cui sono state tratte varie messe in scena, cinematografica e teatrali.
Nello scorso weekend Campo Teatrale ha ospitato quella principe – mattatore un Eugenio Allegri –, pensando al quale lo scrittore torinese ha immaginato la vicenda, e Gabriele Vacis alla regia. Siamo al gotha.
Intanto perché “Novecento”, pur essendo un testo di apparente affabulazione – un trombettista, che racconta della sorprendente vicenda di T. D. Lemon Novecento, che ha conosciuto e di cui è stato amico fraterno -, di fatto si accende di lampi improvvisi. Sono proprio come le tempeste, che repentinamente irrompono a sconvolgere la calma piatta delle interminabili traversate oceaniche. Diventano spesso occasione per dare una virata alla storia, aggiungendo un dettaglio o soffermandosi su una riflessione – a latere, quasi. Eppure è proprio ciò, che fa di questa storia qualcosa di più delle semplici memorie di un trombettista ai tempi, in cui viaggiava avanti e indietro fra Europa e America, intrattenendo gli ospiti sul transatlantico Virginian. “Suonavamo perché l’oceano è grande e fa paura. […] Suonavamo per farli ballare, perché se balli non puoi morire. E ti senti Dio”. Ecco una delle perle, con cui inaspettatamente si accende il testo di Baricco. Quasi una bagatella, pensata forse a mezza voce, ma che fulmineamente guadagna la dimensione di quel trascendentale, in cui ci riconosciamo tutti. Ognuno, poi, ci metterà i propri ricordi e il proprio vissuto; ma ‘quella cosa là’, espressione tanto cara a Baricco, è qualcosa capace di chiamare in causa ciascuno di noi con una semplicità ed una verità assolutamente disarmanti, fin dall’ancestralità della valenza esoterica della danza.
Forse è questo il senso di quel: “Non sei fregato veramente, finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla”, che giustifica l’essere lì, sul palco, di quel testimone – e, per estensione, legittima il senso profondo del patto teatrale, oltre che del ben più basico nesso comunicativo fra soggettività relazionali.
Ma eccellenza anche per il regista, che sceglie una messa in scena minimalista, in cui è affidata all’attore la vera parte del leone. Solo un pianofortino giocattolo – sospeso e che tanto buon gioco farà nel divertissement della scena della ‘ballata’ sull’Oceano in tempesta – e per il resto la musica, ovviamente, a duettare. E poi le luci: dal profondo blu screziato ad animare il telo/mare – all’occorrenza anche schermo proiettivo d’immagini d’antan -, fino ai lampi dorati o agli scoppi di arancio o rosso profondo a far da didascalia alla narrazione.
Ed entro questa profonda pancia della balena – lo spazio nero è quasi amplificato dalle quinte aperte lasciate a vista, quasi insperate uscite di sicurezza… – eccolo: Eugenio Allegri. Giustamente è lui, il grande mattatore, autore di una performance invidiabile.
Gioca per tutto il tempo, Allegri – ‘giocare’ nell’accezione di ‘play’, ‘jouer’ o ‘spielen’, che copre anche il campo semantico di ‘recitare’ e ‘suonare’. Lo fa recitando, certo – una fisicità incontenibile, che sembra mutuata da certe figure mimiche della Commedia dell’Arte -, ma anche usando il proprio corpo come un’immensa cassa di risonanza e modulandone il volume e la portata come si farebbe con uno strumento musicale. Alterna il ritmo, sincopa la vocalità, jezza le battute – arrivando a stridori acustici, che ricordano certe inusitate note del jazz, appunto. Una profusione di virtuosismi, che certo non può che affascinare il pubblico anche per l’abilità tecnica dell’esecuzione. E quando non basta – penso alla scena del duello con Jelly Roll Morton -, tutta quest’eccitazione del personaggio narrante travalica in un accenno di incontenibili passi di tip tap, che fanno tanto America anni “30.
Una performance generosa, costantemente tenuta sulle corde del one man show, che cerca consensi anche gigioneggiando e facendo acrobazie nel facile terreno dell’ironia – spesso abitata in tempi che si allungano o in frasi che sembrano smorzarsi in ostentate reticenze.
Ma poi spesso tutto volge in burla. Così la celeberrima sequenza dell’ “appuntamento fra quadro e chiodo”, ad esempio, sembra risolversi quasi soltanto in uno sketch alla Lenny Bruce, perdendo quel senso di imponderabile e ineludibile fatalità, che diventerà poi materia del monologo finale. Rallenta il ritmo, Allegri – e depone gli abiti del personaggio imbonitore. Ci si commuove, in quel passaggio – uno dei pochi, in cui Baricco dà direttamente voce agli insospettati tormenti e alla struggente fragilità di Novecento. Eppure la sensazione è che se ci si fosse arrivati passando attraverso una camminata un po’ più confidenziale – anzi ché attraverso i ritmi forsennati di questo pur comprensibile “The show must go on” -, forse avrebbero avuto un’eco più acuta e spiazzante quelle parole cristalline, ma lapidarie, con cui si accomiata – dall’amico, dalla vita e dall’Oceano -, il pianista dei soli 88 tasti.
Visto a Campo Teatrale di Milano il 28 febbraio 2015